Qualche mese fa è uscito un saggio di Wofgang Streeck (Europe under Merkel IV: Balance of Impotence, in “American Affairs”, vol. II, n. 2, summer 2018) sul futuro dell’Unione europea (di cui più volte abbiamo parlato anche qui). L’autore, già direttore del Max Planck Institute di Colonia, è noto per le sue posizioni di sinistra radicale ma, al contempo, per la capacità analitica che ha sempre contrassegnato i suoi lavori.


Le sei anomalie dell’Unione europea

In apertura del suo intervento Streeck elenca i motivi del suo scetticismo sul futuro della Comunità europea, una sorta di ircocervo, caratterizzato da sei anomalie:

  1. le politiche interne degli stati membri si sono via via intersecate tra loro, senza un disegno organico
  2. gli stati membri sono ancora “stati sovrani” che perseguono i propri legittimi interessi nazionali attraverso le loro distinte politiche estere, dando luogo a relazioni internazionali intraeuropee
  3. gli stati nazionali, quando si muovono all’interno delle istituzioni comunitarie, possono optare di volta in volta tra fare affidamento su una varietà di istituzioni sovranazionali o su accordi intergovernativi tra coalizioni selezionate di volontari
  4. dall’avvio dell’Unione monetaria europea, di cui fanno parte solo diciannove dei ventotto stati membri della Ue, si è andata strutturando un’altra arena decisionale sovranazionale, composta da istituzioni informali e intergovernative, di fatto in concorrenza con le tradizionali istituzioni dell’Unione europea
  5. politiche sovranazionali e politiche monetarie in ambito europeo devono fare i conti con i diversi interessi geostrategici di ogni nazione, in particolare rispetto agli Usa, alla Russia, al Medio Oriente (più la Cina)
  6. da ultimo, sotto sotto, continua dalla quasi settant’anni una battaglia per l’egemonia, sempre negata da entrambi i protagonisti, tra Francia e Germania, le quali, entrambe l’ammantano di spirito europeista. E l’Italia? Il paragrafo dedicato al nostro paese è intitolato da Streeck in modo beffardo “il cugino povero”. E questo dovrebbe bastare a capire in che direzione va a parare il discorso.

Oltre la retorica europeista di maniera

La conclusione del saggio è pessimistica. “Di fronte alle incapacità dei principali Paesi europei e alle crisi di leadership interna e internazionale ad esse associate dovremmo aspettarci una continua deriva e un decadimento istituzionale, scandito da successive operazioni di emergenza a breve termine che sono profondamente inadatte a fermare l’imputridimento”. Forse non andrà così, ma ci si deve chiedere cosa si possa fare per evitare questa deriva, per certi versi “naturale”, degli eventi.

La prima operazione da fare è quella di abbandonare la retorica europeista di maniera, la quale ha impedito nei decenni passati di guardare in faccia i problemi veri del progetto europeo (in primis, la presenza di interessi nazionali contrastanti, pur se legittimi), per poi, in secondo luogo, provare a immaginare quali “piccoli passi” sperimentali adottare per rimettere un po’ in sesto l’imbarcazione, ora senza guida, senza una meta definita, e in balia delle avversità. Al resto, cioè al lungo periodo, è inevitabile metterci mano se e quando le difficoltà attuali saranno superate.

Ma, lo ripeto, il primo passo è dirci davvero come sono andate le cose fin dall’inizio nella costruzione dell’avventura europea. Noi tutti siamo convinti di essere tra i padri nobili dell’Europa, ma non è così. A ricordarcelo sono stati negli anni scorsi alcuni lavori storici come, ad esempio, quelli di Ruggero Ranieri e di Marco Gervasoni. Ricordiamo come emblematico il percorso di adesione italiana al Piano Schuman per la creazione di un’autorità sovranazionale del carbone e dell’acciaio, nel mese di maggio 1950. I caratteri del progetto francese a cui lavorò in primo luogo Jean Monnet, furono alla base della CECA, Comunità europea del carbone e dell’acciaio, che sarebbe poi sorta nel 1952, dopo la firma del Trattato di Parigi, sottoscritto nell’aprile del 1951. È importante ricordare quella vicenda perché i problemi di allora sono in larga parte gli stessi di oggi.

L’Italia e il piano Schuman

Il 9 maggio 1950 alle ore 16 viene annunciato in una conferenza stampa a Parigi il piano Schuman, a cui nel breve volgere di poche ore risponde positivamente il cancelliere tedesco Adenauer, che nelle stesse ore e in accordo con il governo francese aveva convocato un consiglio dei ministri. L’Italia non era stata neppure avvisata dell’iniziativa. Il problema che spinse la Francia a operare in favore di un processo di integrazione sovranazionale era la paura di una rinascita tedesca, che pareva fra l’altro imposta dall’urgenza degli Usa e dell’Inghilterra di consolidare il blocco occidentale dalla minaccia sovietica. La Francia temeva l’aumento della produzione di acciaio tedesca, se non altro perché essa veniva a ostacolare i propri progetti di rilancio economico, espressi nel Piano quinquennale portato avanti sotto la direzione di Jean Monnet.

Nei giorni immediatamente successivi all’annuncio, l’Italia fu lasciata ai margini. Ferita nel suo protagonismo, la diplomazia italiana si interrogava ansiosamente su cosa potesse riservarle l’iniziativa francese e veniva confermata nei suoi timori e nei suoi sospetti. Non era infatti prevista in alcun modo l’adesione dell’Italia. Proprio in quei giorni De Gasperi aprì contatti informali con i leader francesi e tedeschi, secondo alcune fonti, quasi con atteggiamenti supplichevoli. Diede anche un’intervista al quotidiano “Die neue Zeitung” in cui esprimeva il favore italiano per la riconciliazione franco-tedesca e la convinzione che occorresse valorizzare i punti di identità fra partiti di ispirazione cattolica, in Francia, in Germania e in Italia. Ma la svolta arrivò a metà mese, come conseguenza della crescente ostilità inglese al progetto. Adenauer e Schuman furono costretti a modificare la loro impostazione originaria: l’asse franco-tedeso faceva troppa paura agli alleati. De Gasperi e l’ambasciatore Sforza presero al balzo il momento favorevole e accettarono senza mettere condizioni l’offerta franco-tedesca di un allargamento del progetto a dimensione europea, inglobando cioè l’Italia e i te piccoli paesi del Benelux (Belgio, Olanda, Lussemburgo). Dopo poche settimane venne firmato un primo documento di intesa a sei.

Il “cugino povero”… suo malgrado

Analoghe ricostruzioni potrebbero essere fatte per quanto riguarda la successiva iniziativa di difesa comune nei primi anni Cinquanta. Ma non molto diverso fu il percorso di adesione alla moneta unica negli anni Novanta. Ogni volta abbiamo di fronte Francia e Germania, le quali, sulla base dei loro interessi nazionali, raggiungono un accordo al quale, bon gré mal gré, viene alla fine associato anche il “cugino povero”, l’Italia. Il compito di conseguenza oggi più urgente sarebbe quello di portare in evidenza le fratture che dividono Francia e Germania, per poi provare a modificare la logica opaca che caratterizza da sempre la discussione europea, dove una bolsa retorica di facciata ha l’unico scopo di mascherare la durezza dei conflitti tra i due principali protagonisti (come ha fatto Streeck nel saggio citato all’inizio). Infine, se anche il “cugino povero” provasse a capire come contare qualcosa in più e come difendere i suoi interessi nazionali, forse, la costruzione europea avrebbe almeno una base più solida, fondata cioè sul riconoscimento delle reciproche esigenze e non su un ipocrita gioco a rimpiattino su chi è più europeista.

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