I primi giorni di agosto di dieci anni fa fu consegnata al Presidente del Consiglio di allora, Silvio Berlusconi, una lettera nella quale il Governatore uscente della Bce (Jean Claud Trichet) e il suo successore designato (Mario Draghi) raccomandavano al governo italiano di adottare dei seri provvedimenti economici e di riforma allo scopo di “rafforzare con urgenza la reputazione della sua firma sovrana”. Una frase particolarmente cruda per il linguaggio diplomatico, tanto più se rivolta da un organismo esterno al governo di uno Stato, per l’appunto, “sovrano”.

Ma era lo specchio della situazione. La crisi economica e finanziaria attanagliava l’Italia: scarsa competitività di sistema, disoccupazione a due cifre, Pil sotto l’1%, debito oltre il 120% e, soprattutto, lo spread in rapida ascesa (dai 173 punti di gennaio ai 390 di agosto fino ai 528 di dicembre).

Il governo era diviso: il premier e il ministro dell’Economia, Giulio Tremonti, non concordavano sulla strategia da adottare. Inoltre, la credibilità internazionale di Berlusconi era al minimo. È solo di  qualche settimana dopo, l’increscioso episodio della conferenza stampa Merkel Sarkozy nella quale, alla domanda se avessero fiducia in Berlusconi, si misero a ridere e il Presidente francese, nel tentativo di rimediare, confermò invece il discredito affermando di avere fiducia sì, ma… nelle istituzioni italiane.

In questo quadro i mercati reagirono negativamente deprimendo ulteriormente le potenzialità economiche del nostro paese e la speculazione internazionale ci mise del suo.

Va aggiunto che la linea delle istituzioni europee, a cominciare dalla Commissione, era allora impietosamente fondata sul rigore di bilancio (il QE di Draghi era di là da venire…); tant’è che la tesi dell’Europa a due velocità si stava affermando e non si applicò solo perché le due nazioni interessate al declassamento erano la Grecia e l’Italia; la prima culla della civiltà europea, la seconda anche fondatrice della Europa moderna.

La situazione stava sfuggendo di mano; nonostante il centro destra disponesse in Parlamento di una ampia maggioranza, anche tra le forze economiche e politiche italiane si riteneva maturo un intervento. Tant’è che i retroscena dicono che la lettera sia stata scritta addirittura a Roma, in Banca d’Italia, dall’attuale ministro dell’Economia Daniele Franco, d’intesa ovviamente con Draghi, e che sia stata oggetto di confronto preventivo con esponenti del governo, in particolare con Renato  Brunetta.

La teoria del “complotto internazionale” ai danni di Berlusconi, sostenuta a lungo dai suoi sostenitori, non è priva di fondamento, ma va letta al contrario: nel senso cioè che, da un lato, era la condizione oggettiva nella quale versava l’Italia ad offrire il destro agli speculatori; e dall’altro, visto il peso indiscusso che il nostro paese aveva (eravamo pur sempre la seconda potenza industriale d’Europa e tra le prime otto del mondo), si richiedeva un urgente cambio di passo. Il che risolve anche lo sterile dibattito sulla ingerenza o meno della “Troika” nelle vicende interne. Era, infatti, ormai chiaro che l’Europa si presentava come una istituzione voluta, riconosciuta e indispensabile. La discussione con l’Europa andava – e va tutt’ora – portata sui contenuti, più che sulla legittimità.

La lettera è molto dettagliata e una sua rilettura è molto utile. Non solo perché uno dei mittenti occupa oggi il posto del destinatario di allora, ma anche perché, nonostante il lungo tempo trascorso, molti degli argomenti utilizzati sono tutt’ora in agenda.

Innanzitutto, per evitare la bancarotta del paese, Draghi (lasciamo stare Trichet…) indica al governo italiano di anticipare il pareggio di bilancio di un anno (2013); di contenere da subito il deficit entro l’1%, introducendo una  «clausola di riduzione automatica del deficit»; di predisporre una manovra aggiuntiva di almeno 50 miliardi, operando principalmente su pensioni e pubblico impiego («se necessario riducendo gli stipendi»).

Il governo aveva approvato da appena un mese una pesante manovra da circa 80 miliardi. E il 13 agosto ne approvò una integrativa di altri 45,5 (cui si aggiungerà un ulteriore intervento a settembre di oltre 13 miliardi) motivandola come richiesta dalla Bce, ma glissando sulle più importanti indicazioni della lettera, come ad esempio le pensioni, per la netta opposizione della Lega.

La lettera entrava nel merito delle misure da adottare.  Dalla liberalizzazione dei servizi pubblici locali e dei servizi professionali, alla riforma del mercato del lavoro (prevedendo un sistema di assicurazione sulla disoccupazione e di ricollocamento al lavoro) e dei contratti nazionali (a favore di quelli aziendali); alla messa «sotto stretto controllo» dell’indebitamento delle Regioni e degli enti locali, anche con “una riforma costituzionale che renda più stringenti le regole di bilancio”; alla “revisione dell’amministrazione pubblica”.

Come è facile notare molte di queste richieste sono state affrontate negli anni, in tutto o in parte, bene e male; mentre altre sono ancora in agenda. La riforma delle pensioni è stata fatta immediatamente, dal governo Monti, in maniera addirittura esagerata, tanto da costringere a una modifica, anch’essa sbagliata (quota 100). E ora proprio Draghi dovrà decidere un nuovo intervento entro quest’anno.

Gli stipendi pubblici, se non ridotti, sono stai bloccati per anni; ma la riforma della P.A. è tutt’ora oggetto di discussione. Il pareggio (o più precisamente: l’equilibrio) di bilancio è entrato in Costituzione con il nuovo art. 81, e per quanto riguarda gli enti locali si è riusciti, con politiche rigorose, a ridurre la loro esposizione finanziaria sino a poter superare il patto di stabilità interno. Sulle società partecipate c’è però ancora molto da fare. L’abolizione delle province non ha raggiunto l’effetto sperato e una riforma vera dell’ordinamento pubblico è incappata nel voto contrario nel mal gestito referendum voluto da  Renzi.

Piombato come un macigno sulla complicata situazione economica e politica italiana, l’intervento della Bce doveva restare riservato e tale rimase per molte settimane, fino allo scoop, probabilmente indotto, del “Corriere della Sera”. Si innescarono allora, inevitabilmente, una discussione politica molto accesa e una serie di eventi che portarono l’8 ottobre (esattamente due mesi dopo l’invio della lettera, ma pochi giorni dopo la sua pubblicazione), al voto alla Camera sul Rendiconto economico dello Stato, nel quale il governo perse la maggioranza e Berlusconi fu costretto alle dimissioni.

Ero allora capogruppo del PD in Commissione bilancio alla Camera (il Presidente della Commissione era Gian Carlo Giorgetti!) e ricordo bene il clima di quell’estate trascorsa in Parlamento a gestire manovre che non rispondevano a quanto la lettera (ancora ufficialmente sconosciuta) chiedeva e poi le reazioni politiche alla sua pubblicazione, accompagnate da un tasso di emotività collettivo tipico delle occasioni straordinarie. In sostanza le reazioni si polarizzarono tra chi si dichiarò del tutto favorevole e chi del tutto contrario. E credo che proprio la polarizzazione sia stata il vero limite di quella discussione.

Il destino del governo Berlusconi era ormai segnato, ma la cura da cavallo del governo Monti avrebbe potuto trovare un impatto più sostenibile se il dibattito avesse affrontato il merito dei problemi posti, seguendone l’agenda (i titoli erano tutti plausibili),  ma discutendone i contenuti e le soluzioni da adottare.

Il prevalere di un approccio ideologico (sacrifici sì o no, mentre era evidente che bisognava evitare il default) e di schieramento (Europa sì o no; ingerenza o meno, senza distinguere tra il principio e le politiche) ha impedito di negoziare con le autorità europee il taglio da dare. In tal senso si è persa una occasione per accelerare dei processi di riforma in una strategia di condivisione non obbligata.

Anche l’attuale maggioranza è in bilico tra una fastidiosa coabitazione forzata dalla necessità e la convinta scelta di costruire un decisivo passaggio di rilancio del Paese. Le condizioni sono però  molto diverse: oggi per fare le riforme si dispone della strabiliante cifra di oltre 200 miliardi.

Ma riformare è pur sempre scegliere. Alla fine, in quell’estate del 2011 la politica discusse molto, ma non seppe scegliere le migliori risposte alle stringenti, ma inconfutabili, domande che erano state poste. Il risultato fu un governo tecnico, autorevole e competente, ma pur sempre una limitazione alla rappresentanza politica che si esprime col voto.

Anche per questo, ricordare quella vicenda a dieci anni data è utile.

Non si tratta di celebrare alcun anniversario, ma di imparare la lezione.  

3 Commenti

  1. Giuste e condivisibili riflessioni caro Pier Paolo. Il nostro “Amarcord” di quelle difficili settimane nelle Commissioni e nelle Aule Parlamentari presenta, come Tu rilevi, delle parziali similitudini con l’attuale fase politica. Dobbiamo impegnarci affinché la stella polare rimanga la scelta europea, con politiche economiche, sociali ed estere sempre più integrate tra i Paesi UE. Il tutto basato su scelte riformatrici per la crescita unita alla solidarietà.

  2. PierPaolo grazie per la testimonianza su questa amara vicenda.Niente in Politica è definitivo.Anche ora ne paghiamo le conseguenze.Come alle Olimpiadi nel gioco di squadra sono più bravi gli Altri.

  3. È questa la sensazione che mi sovviene: timore che ancora una volta yi perderà il treno… Ma allora cosa fare? Eh eh…
    Purtroppo penso che le riforme “a tavolino” sono soggette a resistenza a priori e che l’esperienza da molti esempi nel tempo passato: circa 20 per arrivare all’autocertificazione… e cosi via.
    Le riforme dovrebbero tenere conto del contesto e degli attori che si trovano in campo, soprattutto del loro modo di operare, per ribaltare i processi per arrivare a cambiare -riformare-, o almeno iniziare a tendere in quel senso.

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