L’ulteriore conflitto tra Israele e il disperso popolo palestinese, mentre si prolunga
quello tra la Russia e l’Ucraina, costringe a riflettere sulla tragedia del fratricidio
posto dalla Bibbia all’origine del genere umano, quasi inesorabile condanna alle
pulsioni di morte, vittoriose su quelle positive dell’amore. Tutti i conflitti offendono
la retta ragione del calcolo tra convenienza e danno, e tuttavia sono suscitati da
tante particolari ed impellenti ragioni, religiose, giuridiche, economiche, territoriali e
razziali, che agiscono da copertura agli efferati impulsi aggressivi della parte istintiva
del nostro encefalo antico che li alimenta. Si avverte il bisogno di tornare a quelle semplici e purissime idee dì umanità espresse dalla nostra cultura occidentale nel passaggio dall’evo antico al moderno, mirabilmente predicate al popolo dall’ebreo Gesù, in quella stessa terra che ora è teatro della presente recidiva tragedia. E possono enuclearsi nell’enunciazione
intuitiva del non fare agli altri ciò che non vorresti fosse fatto a te stesso, ed hanno
come corollario la fratellanza, solidarietà, pietà, specialmente verso i più deboli, e
soprattutto il ripudio assoluto di ogni conflitto e di ogni violenza, per spezzare il loro
tragico vortice di auto alimentazione: violenza alimenta violenza, ‘abyssus abyssum
invocat’. I miti e pacifici possiederanno la terra, i violenti sono attratti nella spirale
della distruzione.

La ferinità umana dello ’homo homini lupus’ sempre prevalente era stata denunciata
già dallo sconsolato Tito Maccio Plauto due secoli prima di Cristo. Ma in stretto
rimando a lui, Publio Terenzio Afro, liberto cartaginese a Roma, aveva ribaltato
quell’affermazione nell’opposta auspicabile dello ‘homo homini deus’, dell’uomo
che coltiva la fraterna solidarietà, rendendosi dio, utile a sé ed agli altri, ricco e
felice. E ciò indica la dimensione inattaccabile della solidarietà, che rende superflua la
necessità dissuasiva della legge e della sanzione, che pretendono di porsi come
sigillo dell’invalicabile razionalità del diritto, che invece non potrà mai separare con
taglio netto i torti dalle ragioni, e perciò resta esposto al rischio del “summum ius
summa iniuria”, ed ancora peggio, nella sua presunzione, può soggiacere alla
pretesa della sua deleteria assolutezza nel “fiat iustitia, pereat mundus”.

Collegandosi a Terenzio, e sostenendo la politica pacificatrice dell’imperatore
Augusto, Publio Virgilio Marone (70-19 a.C.), introdusse l’idea di fondo che sostiene
l’intero poema dell’Eneide, indicata nella categoria della ‘pietas’, cioè nella
condivisione, solidarietà, aiuto reciproco, intesi come arduo ma esclusivo sentiero
della pace, nonostante le molte divinità del suo panteon pagano dessero clamorosi
esempi di conflitti e vendette e che vi fossero perfino divinità, come le Erinni, figlie
di Gea, e cioè della Terra, dedite per ufficio a provocare divisioni e conflitti tra gli
uomini. Ne fece le spese il pio Enea che, nella tragedia dell’eccidio e incendio di
Troia, si era caricato sulle spalle il vecchio padre Anchise, per imbarcarsi alla ricerca
della nuova patria, assegnata alla loro discendenza nel Lazio. Virgilio designa come
‘pietas’ l’affetto e l’aiuto di Enea verso il padre e verso la propria discendenza e per
tutti gli uomini. L’approccio di Enea ai nativi del Lazio è tutto orientato al rispetto ed
all’operare per la reciproca utilità nella fusione pacifica dei due popoli. Ma le Erinni
suscitano conflitti e la guerra tra di loro, ed è come l’avvertimento di quelli che
possono generarsi dalle religioni.

La guerra tra Latini e Troiani è come il paradigma dei tristi eventi di oggi, nella terra più intensamente religiosa al mondo, e dalla quale è partito il messaggio più altruistico al mondo: “ama il tuo nemico”( Mt 5,44), che non è una forma di desistenza demenziale, ma la più alta proposizione di utilità vitale ed umana dignità, nella predisposizione preventiva all’amicizia. Icona del presente, la vicenda del pio Enea ci guida verso quell’entità umana, ma non ancora giuridica, della ‘pietas’, e cioé dell’obbligo, e non solo della libera opzione, della solidarietà tra i popoli. Negli organismi internazionali si afferma l’indissolubile binomio di ‘Giustizia e Pace’ come fondamento della convivenza, unito al concetto di ‘diritto internazionale’, e sarebbe ingenuo, e perfino ridicolo, parlare di ‘pietas internazionale’, come strumento di politica planetaria, perché verrebbe inesorabilmente bollata come debolezza, o peggio fiacchezza giuridica ed umana. E invece, se la giustizia è la misura dell’equo (aequum=spianato, livellato) e ciò ne costituisce il fondamento, come potrebbe innervarsi nelle asperità delle situazioni individuali, rispettandole e non appianandole? Si cadrebbe nel paradosso che non c’è peggiore ingiustizia che far parti uguali tra disuguali.

Eppure tutti sono uguali davanti alla legge e vien fuori l’insufficienza, se non la malizia dell’equo e del giusto, che sono tratti dal rigore matematico dell’equivalenza, affascinante in teoria, ma crudele nella differenziata realtà esistenziale degli uomini. La giustizia può riuscire a tener conto di ciò e dare ‘ad ognuno il suo’ secondo il principio dell’unicuique suum spezzettato all’infinito tra gli individui? Del resto la giustizia non porta quasi mai alla pacificazione tra i contendenti, che anzi spesso, se non sempre, sono entrambi spinti verso ulteriori e più sordi rancori, con l’ossessione della rivincita nel perdente, e la spavalderia umiliatrice del vincente. E tale condizione, proiettata a livello di conflitti internazionali, conduce a maggiori, ostinate, reviviscenti ed insuperabili ostilità. A parte che la stessa giustizia è spesso strumento di sopraffazione da parte di chi possiede maggiori mezzi per difendersi e piegarla a proprio indebito vantaggio.

Il buon papa Paolo VI nella ‘Populorum progressio’ del 6 marzo 1967, aveva ritenuto che la Chiesa compisse al suo dovere di promuovere la pace nel mondo con la fondazione della Commissione Pontificia, ancora di “Giustizia e Pace’, come ostentava la politica. Eppure, per il Papa, v’era da utilizzare la categoria della ‘pietas’ autenticamente evangelica, come misericordia per l’uomo, comprensione ed amore del prossimo, ereditata dalle migliori aspirazioni ed elaborazioni del mondo classico antico, e fortemente corredata nel Vangelo con il sigillo del primato dell’uomo sulla legge, come su quella rigidissima del sabato, o sulle giuridiche sanzioni (la lapidazione dell’adultera), proponendo invece la solidarietà anche tra nemici, come il buon Samaritano, o il pacifismo della non-violenza nel porgere l’altra guancia, e perfino l’amore per i nemici. E’ un tragico errore di prospettiva, giuridica e politica, ritenere solo religiosi ed utopistici tali orientamenti e non elaborare, invece, per la
pace sul pianeta, procedure internazionali vincolanti, con un magistrato di pace, e
non di sentenze che, senza emettere verdetti e sanzioni, sia in possesso di strumenti efficaci per obbligare i contendenti a percorsi di concordia e non di aggressione, e far valere allo scopo anche l’uso di forze dissuasive di interposizione, come sembra avvenga in Libano. Anche perché accade sovente che la demenziale aggressività si senta quasi provocata dal pacifismo dei miti e lo assalga, costringendolo alla difesa equivalente, non solo legittima ma perfino doverosa, per evitare che prevalga la negatività morale della sopraffazione.

Il giudice di pace e l’interposizione con forze internazionali neutrali è estremamente necessaria per evitare rovine e morti. Se la giustizia, nonostante le buone intenzioni della sua deterrenza, non placa i conflitti, l’invito ad una solidale ‘pietas’ umana, che la ‘pietas’ religiosa di Papa Francesco ora apertamente sostiene, costituisce l’unico antidoto alla cruenta guerra tra i popoli, ed è la via della riconciliazione, dell’amicizia, della solidarietà tra gli uomini e le nazioni, apportatrice dei buoni frutti della pace. E’ necessario, tuttavia,
che la ‘pietas’ diventi, pertanto, obbligante strumento di universale composizione dei conflitti, che istituisca le procedure obbligatorie che impongano il vantaggio assoluto che si ottiene dal considerare i bisogni altrui per farli propri ed operare insieme a risolverli, nella constatazione, universalmente evidente, che c’è sempre un reciproco vantaggio a concludere accordi di pace, e sempre un reciproco danno a scatenare la furia distruttiva della discordia. Non più il culto della rivendicazione di ciò che è giusto, sempre discutibile, ma la considerazione di ciò che è maggiormente utile e vitale, non solo empiricamente nell’immediato ma soprattutto nella prospettiva delle future generazioni, che certamente pretendono dai padri il lascito di un mondo pacifico. Sallustio (86-35 a.C.), rigoroso storico delle guerre intestine di Roma, ha enunciato l’incontestabile paradigma che “con la concordia le piccole realtà crescono, con la discordia anche le più grandi vanno in rovina”.

Ma la concordia si nutre dello spirito della reciproca considerazione, non della prevaricazione e neppure della legale contesa, madre di sordi conflitti. Perché è un pregiudizio della sbornia razionalistica, di rigida e matematica equivalenza, ritenere a fondamento della dignità la giustizia, quanto invece, e secondo ancora l’affermazione forte di Terenzio, lo è quello dell’ “homo sum nihil humani a me alienum puto”(sono uomo e nulla di ciò che è umano lo ritengo a me estraneo). La condivisione è la disposizione radicale alla comprensione delle ragioni altrui per orientare in solidarietà anche le proprie. Ciò determina l’assoluta assenza di ogni contesa o prevaricazione e il superamento della belluinità della forza, il cui uso, nella dolente analisi di Simone Weil (1909-1943), non solo distrugge la dignità di chi la subisce, ma soprattutto degrada chi la esercita da uomo a bestia. Modellata ancora dalla forza dell’evoluzione della specie ’homo sapiens sapiens’,
coinvolta nel processo crescente della cefalizzazione, dello sviluppo mentale, che ha
prodotto il progresso del villaggio globale planetario, l’umanità del futuro perverrà
all’ovvia e corretta enunciazione dei principi della sopravvivenza del pianeta, nella
quale trionferà, come suprema formulazione di universale utilità, il monito
evangelico “ama il prossimo tuo come te stesso”, e non tanto per dovere morale,
quanto come razionale ed ineludibile enunciazione della necessità della solidarietà
come condizione concreta e suprema della sopravvivenza, cui deve conformarsi il
diritto. Il villaggio globale ci renderà tutti prossimi, e perfino tutti fratelli, per la
reciproca vicinanza e conoscenza, inevitabile nell’universale frequentazione di scambi e interessi. In esso la ‘pietas’ solidale rappresenterà l’ethos naturale che governerà il pianeta, come autentica e superiore giustizia, tra esseri consapevolmente e creativamente pensanti, o forse perfino imposto a loro dalle macchine pensanti da essi stessi costruite, esenti dalla schiavitù dei passionali impulsi distruttivi, ma operanti nel solo severo rigore deduttivo della pragmatica di una reciproca convenienza.

Già oggi arabi e israeliani e russi e ucraini, potrebbero intuire, dopo la tragica follia
di tante assurde morti, l’immensa utilità di venirsi incontro, in un liberatorio atteggiamento di reciproca condivisione, abbracciando l’uno i bisogni e le aspirazioni dell’altro, sostenendosi così entrambi nel comune rispetto, ancora ‘pietas’, che devono alle loro future generazioni, che hanno la massima convenienza e il diritto assoluto di non essere costrette a vivere nell’eredità demenziale delle macerie dell’odio e della vendetta.

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