L’Italia e la tendenza all’autolesionismo

Il barometro dell’Italia segnala una pericolosa tendenza all’autolesionismo. Cercheremo di afferrare almeno un bandolo a cui aggrapparsi per non precipitare nello sconforto più totale. Ma prima è opportuno soffermarsi su ciò che accade nel mondo, perché da esso non si può prescindere.

Il mondo tra tensione internazionale, cambiamento climatico, globalizzazione ed evoluzione tecnologica

Innanzitutto, è in forte ripresa il clima di tensione internazionale. Le guerre locali non finiscono mai, a unico e finale beneficio dell’industria degli armamenti. In più, dopo l’annuncio di Trump di stracciare l’accordo con la Russia sulla non proliferazione delle armi nucleari, quell’industria ha certamente brindato a Dom Perignon. E ciò, mentre milioni di persone sono ridotte in condizioni disumane e una parte consistente di esse sogna e preme per raggiungere Paesi più sicuri e possibilmente accoglienti. Con l’ONU ridotto praticamente all’immobilismo per il gioco perverso dei veti incrociati, con le diplomazie rese afone dagli interessi nazionali delle grandi potenze ed i tavoli della pace boicottati o disertati, la terza guerra mondiale non dichiarata – come la chiama Papa Francesco – procede con passo da montagna, ma va avanti senza sosta. Soltanto l’iniziativa umanitaria di alcune agenzie internazionali, di tante ONG, delle comunità religiose più volenterose e di alcuni Stati sensibili sta ancora tenendo aperta la finestra sulla speranza di contenere i fenomeni distruttivi ed evitare il peggio.

Il mondo guarda ancora in modo distratto il galoppante disastro ambientale. Tra negazionisti al potere e documentati ma impotenti ecologisti, scelte di economia circolare e di nuove visioni dell’organizzazione delle città e delle campagne oltre che dei luoghi di lavoro fanno una fatica terribile ad affermarsi, prima culturalmente e poi concretamente. Con il risultato che la dimensione globale del fenomeno non trova antidoti sovranazionali capaci di attuare i cambiamenti necessari. Quelli nazionali, ove ci sono, avanzano timidamente ed asimmetricamente. Chissà cosa deve ancora accadere perché l’accordo di Parigi del 2015 riacquisti vigore e consenso unanimi.

Il mondo, inoltre, è sempre più condizionato da una globalizzazione che è mezza madre e mezza matrigna. Miliardi di persone sono uscite dalla povertà assoluta, anche per effetto della liberalizzazione dei mercati e dei commerci. Ma, nello stesso tempo, una moltitudine di persone, nello stesso tempo, è scivolata da un minimo livello di benessere verso la povertà, sommandosi ai poveri già esistenti. Questo è avvenuto soprattutto nei Paesi a capitalismo evoluto. In questi, le disuguaglianze sono cresciute, nuove oligarchie si sono imposte e nuovi agglomerati di emarginati si sono formati, tutti nel segno della finanziarizzazione dell’economia. I Paesi hanno perso la loro capacità di ridistribuire la ricchezza, favorendo così egemonie multinazionali di soggetti spesso inaffondabili dalle leggi nazionali. Così, la sovranità dello Stato è decaduta da piena a marginale.

Il mondo, infine, deve fare i conti con l’evoluzione dell’intelligenza artificiale. Ogni tentativo luddista è stato in passato condannato all’insuccesso e lo sarebbe anche ora. Ormai siamo alla fabbrica che produce robot attraverso robot. Ma ogni atteggiamento passivo di fronte all’avanzata di questa rivoluzione post-industriale è un suicidio soprattutto per la dignità delle persone. La tecnologia può consentire balzi formidabili alla produttività dell’agire umano, ma può anche sopraffarlo, mettendo a rischio le stesse relazioni tra le persone. Già stiamo sperimentando che la spersonalizzazione del produrre si trasferisce fin nella vita privata. I valori e i costumi sono messi a dura prova. Ciò che sembrava un andazzo lineare, oggi è un rottame obsoleto. La fatica di trovare nuovi equilibri può essere soddisfatta se non si considera residuale il lavoro umano, se si accompagnano le persone con un sapere continuo e se il lavoratore è coinvolto nella distribuzione del valore aggiunto che l’innovazione produce, in termini reddituali, occupazionali, professionali e decisionali.

I terreni su cui confrontarsi: coesione sociale, lavoro, Europa

Dunque, il mondo sta profondamente cambiando. Viviamo un tempo di passaggio tra quello che muore e quello che nasce. Può produrre acuti confronti che non sono estranei al tema che abbiamo scelto. Infatti, se il pendolo della storia, anche nel nostro Paese, si spinge sempre più verso obiettivi, scelte, comportamenti ostativi delle libertà democratiche, degli spazi di pluralismo, dei diritti civili e favorisce l’avventurismo economico e politico, vuol dire che il riformismo, che ha condizionato positivamente la
scena della nostra vita repubblicana, ha esaurito il suo fascino. Ma del riformismo, come cultura politica e capacità gestionale, non se ne può fare a meno. Serve, ancor più oggi, per accompagnare quel passaggio complicato tra vecchio e nuovo, per governare il mutamento delle vicende collettive, nel rispetto di quelle personali. Ci vuole una  piattaforma nuova, senza accantonare i valori fondanti: uguaglianza, solidarietà, giustizia, partecipazione, democrazia. Non basta distinguersi dai momentaneamente vincenti” in termini valoriali. Va sempre fatto, se no si finisce nella barbarie. Ma ci vogliono politiche nuove per ricostruire un sentimento di fiducia con e tra le persone, da quelle più marginalizzate a quelle già protette. Accanto ad esse, ovviamente, vanno ripristinate con urgenza la credibilità delle leadership che le propongono e l’opzione per modalità di coinvolgimento che risultino seriamente attrattive.
I terreni su cui cimentarsi sono diventati tanti, ma l’agenda di questo tempo ci consegna tre questioni decisive: innanzitutto, come si assicura a qualsiasi Paese, ma particolarmente al nostro, la tenuta della coesione sociale; in secondo luogo, quale prospettiva e quale peso occorre assegnare al lavoro in Italia; infine, rafforzare l’Europa come perimetro entro il quale benessere, libertà e democrazia possano riguardare il maggior numero possibile dei cittadini del continente e quindi anche gli italiani. Senza uno sforzo collettivo, a partire dalle espressioni della società civile, non si potranno scalzare culture e politiche fondamentalmente regressive.

Il Governo legastellato

Sono quelle che caratterizzano il Governo legastellato. Non sono classicamente di destra. Il che le rende più e non meno inquietanti. La destra più vicina nel tempo che abbiamo conosciuto, si era fermata alla soglia del “non vi metteremo le mani in tasca”. I legastellati si spingono oltre, promettono: “vi mettiamo i soldi in tasca”, in qualsiasi forma e a qualsiasi costo. E non a quattro gatti, ma a milioni di persone. Il buon senso induce a pensare che si stiano inoltrando – per di più, senza traccia di gradualismo – nel territorio della fantascienza. Ma nessuna meraviglia che il consenso popolare sia ampio. Anche i più scettici tra quelli che hanno dato credito ad essi il 4 marzo, sono portati ad assicurare il beneficio d’inventario a chi dice “basta austerità”. Comunque finirà la vicenda della legge di stabilità, i danni economici sono già significativi – in termini di
credibilità dell’Italia e di onerosità delle scelte – ma soprattutto i danni sociali rischiano l’irreparabilità. Le loro scelte sono figlie di un’impostazione corporativa della politica, con la pretesa che la somma di felicità parziali – ammesso che riescano a mantenere le promesse – faccia la felicità di un Paese.
Indebitarsi keysianamente per lo sviluppo è un conto; farlo per accontentare e tacitare gruppi sociali, tra l’altro poco omogenei tra loro, è altra cosa. Fra Keynes e Savona – che sostiene che il condono è una redistribuzione sana della ricchezza e scusandomi con il primo per l’accostamento – il Governo legastellato pende decisamente verso il secondo. E il Paese scade nell’autolesionismo, visto che il ciclo economico mondiale resta in ripresa, l’occupazione aumenta, i conti pubblici ereditati sotto controllo. Però, non si può
stare tranquilli. Se anche la Borsa e i mercati finanziari non apprezzano questo modo sgangherato di governare, non vuol dire che siamo in buona compagnia. La Borsa non è mai stata progressista. I mercati finanziari non hanno mai perseguito il bene comune. Fanno mestieri che mal si conciliano con la solidarietà.
Sarebbe un errore delegare ad essi il ruolo di angelo sterminatore. Ciò che occorre, invece, è costruire rapidamente una progettualità alternativa e una unità d’intenti tra vari soggetti sociali e politici che, alla testa e agli occhi delle persone, sappiano ispirare nuove e praticabili certezze. Non c’è bacchetta magica per realizzare questa prospettiva. C’è invece la concreta possibilità di riuscirci se attorno ad un nucleo essenziale di  obiettivi si aggreghi un consenso solido, frutto di un lavoro costante, intelligente, capillare tra la gente.

Uguaglianza delle opportunità, del benessere diffuso, della lotta alle marginalità

La priorità da assegnare alla coesione sociale non è un omaggio al mito dell’uguaglianza delle opportunità, del benessere diffuso, della lotta alle marginalità. È piuttosto una sottolineatura di necessità, nella nostra situazione. L’individualismo non è sinonimo di personalismo, l’egoismo non è in assonanza con la dignità, la vecchiaia non può essere soltanto timore della solitudine, la giovinezza non deve scorrere nell’indifferenza sul futuro. Questi conflitti e queste penosità serpeggiano nella nostra società da tempo, ma mai come ora possono concludersi a favore del peggio, anche se ammantato di nuovismo, di alternativismo, di orgoglio nazionalistico. La coesione è vitale per un Paese con deficit demografico e senza politiche efficaci per la famiglia e le nascite, al punto che lo spread con gli altri Paesi è allarmante perché riguarda il destino delle future generazioni; con squilibri crescenti, specie tra Nord e Sud e tra centro delle città e periferie; con un ascensore sociale che rimane bloccato al punto che oggi ascoltiamo il vanto dell’ignoranza al potere; con un impoverimento paradossalmente più reddituale che patrimoniale di un numero crescente di famiglie.
Inoltre, questa priorità è vitale per non trasformare la povertà in una bomba sociale. Oggi, vivono in povertà assoluta più di dieci minori su cento. Il Rei è sicuramente la migliore misura finora adottata. Sarebbe una disgrazia se fosse affossata. Anche se è soltanto il primo passo, ragionato e da potenziare. È insidiato del reddito di cittadinanza che da misura ultima di una politica contro la povertà, balza in primo piano, specchio delle allodole per i giovani disoccupati. Su ciascuno di questi temi non serve a niente procedere a colpi di interventi spicci, ma piuttosto serve la definizione di una strategia di risanamento delle
lacerazioni che il passato ci consegna.
In particolare per il Mezzogiorno, il deficit più preoccupante resta quello occupazionale per il quale la cura non è quella di ridefinire priorità produttive. Tutti i settori possono avere chances di evoluzione, come si sta verificando in questa fase di ripresa dalla crisi. Ciò che serve è tanta formazione orientata nella giusta direzione e servizi pubblici di qualità – dalla sanità, all’ecosostenibilità dei territori, dall’amministrazione locale, alla manutenzione delle infrastrutture – oltre, ovviamente, una rete di eticità dell’agire delle classi
dirigenti che tenga sempre più a debita distanza l’illegalità e la criminalità.
Rilanciare la necessità della coesione sociale significa ricentrare le priorità dell’intervento pubblico e del ruolo essenziale dei corpi intermedi, dell’associazionismo, del volontariato per favorire grandi e piccoli progetti di ritessitura dei fili che possano tenere insieme intere comunità.
In quest’ambito, va collocata la questione immigrazione. Non è un fenomeno congiunturale ma strutturale; nel breve periodo, ci consente di non drammatizzare lo squilibrio demografico; ci trasforma in un Paese multietnico e quindi più capace di capire il mondo. Gestendo, fra l’altro complessivamente bene, soltanto l’accoglienza, si è realizzato un errore europeo e un regalo al populismo. La speculazione politica sugli sbarchi ha deviato l’opinione pubblica dalla questione più complicata: quella dell’integrazione. Troppi
immigrati vaganti per città e paesi come fantasmi, flussi irregolari per troppo tempo, verso il resto d’Europa, hanno alimentato la percezione – non confermata dai dati obiettivi – di uno sconvolgimento della vita e delle abitudini degli italiani. Sebbene ci siano stati passi in avanti, soprattutto nell’ultimo anno, è tuttora assente un disegno sull’integrazione dei migranti a scala nazionale che non la scarichi sul volontarismo dei sindaci. L’isolamento dell’esperienza di Riace è emblematico della pochezza strategica dello Stato e dei vuoti della sua legislazione, che in questi giorni si stanno riempendo di ulteriori discriminazioni, con la trasformazione del decreto sicurezza, in legge. Dunque, occorrono programmi coordinati e diffusi che realizzino l’integrazione linguistica, l’educazione civica e la convivenza sociale; finanziamenti per la casa, per l’istruzione, per l’inserimento al lavoro, a partire da un rilancio dei lavori socialmente utili. È insensato che di tutto ciò se ne possa occupare il Ministero dell’interno. Prevarrà sempre la mentalità da ordine pubblico. Ci vuole un Ministero ad hoc per la politica dell’integrazione. È essenziale per consentire alle autonomie locali e alla società civile di armonizzare le loro energie, le loro priorità, le loro generosità. Senza uno sforzo comune su questo fronte, non si governa bene neanche l’accoglienza. Non è lo sbarco il problema, ma il dopo sbarco e l’Europa deve fare la sua parte che va ben oltre le quote – finora mal applicate, se non boicottate – assicurando il sostegno ai Paesi più esposti sulla questione.

Lavoro, precarietà e Industria 4.0

Se ci fosse lavoro per tutti, la coesione sociale sarebbe meno problematica e l’immigrazione meno strumentalizzabile. È vero che nella ricca Baviera, a tasso di disoccupazione che neanche ce lo sogniamo, la politica xenofoba sarà rappresentata nel Parlamento del land, per la prima volta dal dopoguerra. Ma, nel contempo, diventa ago della bilancia per i futuri equilibri di Governo, la compagine dei Verdi guidata da Katharina Schultze, che, sulla questione immigrazione ha sostenuto con tenacia che essa “va guidata e non semplicemente amministrata”.
Il lavoro non ha avuto l’attenzione che sarebbe stata necessaria, negli anni di affermazione della globalizzazione. Non lo ha avuto dal lato della domanda, perché non ci sono stati investimenti sufficienti per compensare la perdita di posti di lavoro nella fase delle crisi di inizio di questo secolo. Non lo ha avuto dal lato della offerta, perché c’è stata l’ossessione della ricerca della flessibilità. L’esercito dei precari non è cresciuto soltanto perché da Amazon ai centri di ricerca, passando per le industrie 4.0 ma anche per i servizi
a bassa qualificazione, l’organizzazione del lavoro, le nuove tecnologie, gli andamenti ondivaghi delle congiunture lo consentivano. È cresciuto anche per una legislazione che ha affastellato norme su norme, incentivi a tempo e non strutturali, con l’obiettivo di favorire il lavoro a tempo indeterminato. Un flop. La corsa al tempo determinato, con le sue varie facce, è continuata, producendo troppo spesso “cattiva” flessibilità.
Infatti, essa è buona soltanto quando è trasparente, legale, controllabile, contrattata. Ma soprattutto quando essa è dignitosa. Se così fosse, nessuno la metterebbe in discussione. Un contratto a tempo determinato “sì, ma”, come quello inaugurato dall’attuale Governo, ha già avuto la sua stagione, all’inizio del 2000, ma ha soddisfatto soltanto gli avvocati. Non a caso, il “decreto dignità” è già in soffitta, per mano degli stessi proponenti.
Se si accetta la “buona flessibilità”, questa deve essere tutelata adeguatamente. Ed al riguardo, anche le soluzioni del jobs act e i successivi aggiustamenti non sono stati efficaci. L’espansione del ricorso al lavoro a tempo predefinito da parte delle imprese private e pubbliche, anche in una fase di rilancio dell’economia, spiega una semplice verità: il lavoro sta ritornando ai livelli precrisi, ma non è più lui. I sistemi produttivi e organizzativi sono enormemente cambiati. L’imprevedibilità sia dei comportamenti dei mercati, sia della
longevità dei prodotti e sia dell’evoluzione delle tecnologie condiziona la prevedibilità del tempo d’impiego di un lavoratore, qualificato o non. L’obiettivo deve rimanere quello di spingere il più possibile verso il tempo indeterminato, senza togliere la possibilità alle aziende di utilizzare il tempo determinato, ma tutelando meglio il lavoratore che si troverà in questa situazione. Il rimedio è soltanto uno: il contratto a tempo determinato deve costare di più e incorporare più dignità. Non deve essere trattato come un contratto di serie B. Non deve essere considerato un accidente nella storia lavorativa di una persona.
In concreto, il legislatore dovrà farsi carico di estendere anche ai lavoratori a tempo determinato alcuni diritti (per esempio, lo sgravio fiscale per i benefici derivanti dal welfare aziendale) e anche alcune tutele (prevedere che costi il 15% in più dei minimi contrattuali, da destinare in parte alla pensione e in parte ad un fondo di assistenza in caso di periodi lunghi di disoccupazione; inoltre, creazione di un fondo di rotazione per garantire a questi lavoratori di poter accedere ai mutui per l’acquisto della casa). Le parti sociali, a loro volta, devono generalizzare i vantaggi della contrattazione di secondo livello anche a questi
lavoratori.
In questo diverso contesto, la buona flessibilità acquista valore; non è né ripiego, né speculazione. Il dualismo del mercato del lavoro perderebbe gran parte dell’odiosità della gerarchizzazione delle forme dei contratti, per delineare una “dignità nella diversità” che finora non è stata realizzata. In questa maniera, anche la partecipazione alla vita dell’azienda e a quella del sindacato da parte dei lavoratori a tempo determinato avrebbe ragion d’essere, con vantaggi per tutti.

Come favorire l’espansione delle opportunità di lavoro

Non basta ricomporre almeno in parte il mercato del lavoro. Occorre espanderlo, creando più opportunità di lavoro. La priorità in questa fase dovrebbero averla quegli investimenti pubblici che alzino il livello di produttività delle infrastrutture materiali ed immateriali del Paese e favoriscano l’economia circolare, quella che non spreca, non inquina, non evade e crea nuova occupazione. Si trascinerebbero investimenti privati che senza quel battistrada non ci sarebbero. Verrebbero così rafforzate quelle aziende che si danno obiettivi numericamente misurabili non limitati alle convenienze degli azionisti, ma anche a
quelle dei lavoratori, dei clienti, della comunità, dell’ambiente. Questa è una impostazione realmente keynesiana, non quella disegnata nella legge di stabilità ed imperniata sul corporativismo delle promesse.
C’è un altro modo per favorire l’espansione delle opportunità di lavoro. Riguarda la ripartizione del tempo di lavoro nei settori industriali e dei servizi. Il lavoro annuo di un italiano è mediamente di 350 ore superiore a quello di un tedesco e rispetto a questo, ogni ora di straordinario è meno costosa di quella ordinaria. Tutto ciò, secondo Eurostat, in un regime di costo del lavoro orario di euro 30 nell’Eurozona, 34 in Germania, 36 in Francia e di 28 in Italia.
Tutte condizioni per mettere in primo piano, con sufficiente realismo e senso dell’attualità, un processo di ripartizione del tempo di lavoro. Si potrebbe stabilire, per avviarci ad un allineamento europeo, che ciascun lavoratore possa avere una dote annua di 150 ore che, attraverso la negoziazione collettiva e con attenzione anche alle specificità individuali, potrebbe utilizzarla per ben definite circostanze (per esempio, formazione, esigenze familiari) nel tempo e con il salario convenuto contrattualmente. In ogni caso, si
aprirebbero significativi spazi per l’occupazione giovanile, soprattutto se – invece degli sgravi contributivi tradizionali e degli assegni assistenziali– si mettessero risorse finanziarie a disposizione di accordi tra le parti sociali finalizzati a nuova e aggiuntiva occupazione.

Quali sono le caratteristiche del nuovo riformismo

Il riformismo nuovo non è sinonimo di austerità, ma di una austera utilizzazione delle risorse pubbliche, di una equilibrata gestione della coesione sociale. Il riformismo nuovo punta sul lavoro e non sull’assistenza e deve assumere come logo l’antico detto cinese: “dai un pesce ad un uomo e lo nutrirai per un giorno, insegnagli a pescare e lo nutrirai per tutta la vita”. Il riformismo nuovo non cede a calcoli elettorali schiacciati sul presente. Il riformismo nuovo non si confonde con l’autarchia spocchiosa, ma vive di europeismo propositivo.
C’è da chiedersi: se ci fossimo presentati in Europa con un’impostazione sull’emigrazione e sul lavoro come quella appena descritta e con la necessità di spingerci a ridosso della soglia del 3% nel rapporto debito/PIL, gli altri Paesi e i mercati finanziari avrebbero riservato l’accoglienza che hanno dimostrato unanimemente nei confronti del Documento programmatico “immodificabile”? Penso proprio di no, perché c’è una prevalenza di impegni e risorse sull’integrazione, sulla famiglia, sugli investimenti e per il lavoro che qualifica in termini di reale e durevole sviluppo la deroga richiesta.
Nello scacchiere europeo, l’Italia deve fare da pungolo perché l’Europa “rischi” sul futuro piuttosto che accartocciarsi sul presente. Le sfide vere si devono fare su come stare meglio assieme e non su come distinguersi. I sovranisti, se continueranno a battere il tasto del nazionalismo, ci ridurranno all’irrilevanza.
Ogni ambizione di effettivo benessere per gli italiani saremmo costretti a rimetterle nel cassetto. E a pagarne le conseguenze non saranno certo i beneficiari del condono o i possessori dei capitali che in questi giorni stanno dedicando tempo e passione alla loro esportazione all’estero, ma quelli delle partite IVA che non sapranno che farsene della riduzione fiscale promessa perché scemerà il fatturato, quelli che speravano di essere assunti a seguito del pensionamento a quota 100 perché la crisi ridimensionerà la
produzione, quelli che aspirano al reddito di cittadinanza perché è verosimile che i soldi a loro destinati saranno inevitabilmente dirottati per pagare il rialzo degli interessi sul debito. Non è catastrofismo, ma osservazione dei fatti.
Anche se si arrivasse ad un compromesso con la Commissione Europea, la fiducia sulla tenuta dei conti dell’Italia continuerà a preoccupare gli investitori finanziari a cui si rivolgerà il Governo italiano per ottenere prestiti. Se la tendenza risulterà questa, ogni decisione che indurrà, sarà poco piacevole per il Paese. Per questo bisogna insistere nell’aver fiducia nell’Europa e fare in modo che sia più sociale, più pro labour, più
solidale con gli ultimi. È un problema di volontà politica ma anche di organizzazione della sua democrazia.
Il vero fallimento dell’Europa che conosciamo è che il processo democratico che ha qualificato la legislatura che si chiuderà tra qualche mese, ha messo nelle mani dei Governi l’ultima parola e questi, su molte questioni, si sono rimessi regola dell’unanimità. Un po’ troppo per non aprire la strada ai sovranisti ed un po’ poco per avere un’andatura da cavallo di razza.

Le questioni aperte nell’Ue

Chiudere questa pagina della vita dell’Europa non sarà facile. Dipende molto dal risultato delle elezioni del 2019. Ma i fautori di un’Europa proiettata verso una forma concretamente federale devono fare massa critica sul disegno di nuova struttura delle decisioni, definendo quelle che devono avere un percorso dove il peso dei Governi sia forte e quelle per le quali pesino di più Parlamento europeo e Commissione. Ci sono questioni trasversalissime che nessun Paese da solo può gestire: l’eliminazione dei paradisi fiscali nell’ambito dei 28 Paesi dell’Unione; la definizione e gestione della politica economica, con particolare riferimento ai grandi investimenti strategici, al sostegno dell’occupazione e alla politica fiscale; la programmazione dell’accoglienza e la progettualità dell’integrazione degli immigrati; la politica commerciale nei rapporti con gli altri Paesi; la sicurezza rispetto al terrorismo e l’intervento militare nelle guerre locali. Su queste, l’orientamento del Parlamento europeo deve diventare prevalente e vincolante. I
cittadini europei devono sapere che il loro voto è veramente utile, condizionante, con un forte peso sovranazionale. E bisogna partire da decisioni politicamente rilevanti sia sul piano valoriale, sia su quello degli interessi in gioco.
Molto del futuro dell’euro dipenderà dal successo degli europeisti convinti. Una riduzione dell’Europa ad una sorta di mercato comune, di buona ma datata memoria semmai salvando l’Erasmus, non fornisce nessuna certezza sulla tenuta nel tempo della moneta unica. Le sorti sono intrecciate. Il giochino dei sovranisti che ora dicono sì all’euro e no ad un’Europa più forte, è troppo scoperto. Svuotare la democrazia europea e avere un euro stabile è un’equazione che non porta risultato. Fa semplicemente saltare il banco e fare molti passi indietro. Bisogna smascherare questa ambiguità che purtroppo corrisponde anche ai sondaggi tra gli europei. I più recenti dicono che sono più quelli che si dichiarano contro che quelli a favore dell’Europa, compreso gli italiani, ma la stragrande maggioranza si vuole tenere stretto l’euro. Questa maggioranza va convinta che non è con le ricette dei “momentaneamente vincenti” al Governo e dei loro alleati in Europa che si salva il secondo, ma che è possibile soltanto dando un’anima sociale all’Europa e potenziando la sua l’identità democratica.

Il sogno costruttivo di una Europa più forte, più democratica, più inclusiva

Chi deve assumersi questo compito persuasivo? In ultima istanza le forze politiche che si riconoscono nella cultura e nella vocazione riformista e progressista. Ma il rilancio di una visione europeista, solidaristica e partecipativa deve vedere protagoniste le organizzazioni della società civile che non si arrendono al declino di quella prospettiva. In particolare, le grandi organizzazioni sindacali. La prova della resistenza ai tentativi di marginalizzare il lavoro e la sua rappresentanza è stata superata. Ha avuto i suoi morti e feriti, ma il sindacato non è stato devastato né dalla crisi economica, né dalle dinamiche della politica, come, invece, è avvenuto in altre parti d’Europa. L’offensiva più insidiosa è venuta dall’egemonia della politica (con il corollario di una invasiva e spesso inconcludente proliferazione legislativa sui temi del lavoro e del welfare) e del suo sottoprodotto, la disintermediazione (la vana opinione di un rapporto diretto tra istituzioni, partiti e popolo, saltando bellamente i corpi intermedi). I governanti che hanno creduto all’egemonia assoluta della politica hanno pagato duramente questa opzione di gestione del consenso.
Quello in carica sta continuando nella stessa direzione. Ma l’egemonia della politica è fortemente minata e quella fase, al di là delle apparenze, è già in decadenza.
Assieme alle forze sindacali, altri corpi intermedi – compresi quelli imprenditoriali – come altre espressioni della società civile – dal volontariato, al Terzo Settore, alle realtà di base – hanno una vitalità e una capacità mobilitativa che – nonostante il lungo periodo in cui sono state sulla difensiva, con scarso ruolo riconosciuto – sono sostanzialmente intatte. E in questo periodo, in più punti del Paese (da Torino, a Como, da Milano a Riace e finanche nella Capitale) ci sono stati segnali interessanti, non marginali e talvolta sorprendenti. L’importante è che donne e uomini di buona volontà si mobilitino “per” e non solo “contro”. Abbiamo ripetuto più volte in questa relazione che è su obiettivi concreti, realizzabili che si deve assemblare una proposta alternativa. Abbiamo, pertanto, cercato di portare un contributo ancorato fortemente a questa opzione. E quindi contiamo che una rete sempre più diffusa di tanti soggetti sociali – ripeto, primi fra tutti le confederazioni sindacali – facciano sentire la propria volontà di far prevalere idee innovative ma in linea
con le radici democratiche del Paese. Cercheremo di replicare nei prossimi mesi incontri come questo in giro per l’Italia.
Le avventure non ci piacciono. Le assurdità – come quella che hanno di nuovo investito Mattarella e il ruolo del Quirinale o quella che vorrebbe armare la gente per farsi giustizia da sé – non ci appartengono. Ci interessa che gli italiani non solo non patiscano nuovamente una crisi – fra l’altro non importata ma costruita in casa – ma possano continuare a stare nel solco delle economie dei Paesi dell’Europa e semmai
contare su una prospettiva di benessere più diffuso.
Sette mesi ci dividono dall’ elezioni europee. Non sono pochi, ma vanno intensamente vissuti. D’altra parte, saranno elezioni che – forse per la prima volta nella storia del Parlamento europeo – verranno viste come vicenda che tocca le singole persone. C’è crescente consapevolezza della posta in gioco, sia perché il mondo sta cambiando e l’incertezza viene da lontano, sia perché le questioni della vita quotidiana si intrecciano
con quelle del destino di un intero continente. Va lanciata la sfida dell’alleanza per la solidarietà concreta, toccabile con mano, non divisiva. Operando così, è possibile che l’agenda vincente della prossima tornata elettorale sia quella di chi crede nella capacità di governo del futuro. Un’agenda che possa far ritornare il sogno costruttivo di una Europa più forte, più democratica, più inclusiva.

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