Intervista a Paolo Feltrin, politologo, coordinatore del comitato scientifico di Res.
L’approvazione della legge costituzionale per il taglio del numero dei parlamentari è motivo di dibattito e confronto, e fa notizia anche perché si tratta del provvedimento con il più alto consenso parlamentare da inizio legislatura, grazie ai 553 voti a favore. È un clamore giustificato?
Trovo che la polemica di queste settimane sia insensata da una parte e dall’altra. Io non sono così ostile alla riduzione del numero dei parlamentari, ma le mie motivazioni sono diverse da quelle dei 5 Stelle. Credo infatti che un Parlamento ridotto possa dare un ruolo più significativo e importante ai deputati presenti, responsabilizzandoli e obbligandoli a lavorare con maggiore impegno, esaltandone ancor di più la competenza e la rappresentanza. E a chi asserisce che sono troppo pochi dico di stare attento ai confronti sbagliati, senza senso. Non si può paragonare il nostro Paese a nazioni più piccole, con meno abitanti. Altrimenti dovremmo mettere a confronto i nostri numeri con quelli americani: negli Stati Uniti i membri del Senato sono 100, quelli della Camera dei Rappresentanti 435. In totale 535 rappresentanti, un numero inferiore anche a quello che prevede la nostra riforma.
Quindi non teme possa esserci un problema di rappresentanza? Le regioni più piccole sono insorte, temono un forte ridimensionamento della presenza dei parlamentari del loro territorio.
Io questo problema non lo vedo. La proposta precedente prevedeva addirittura l’abolizione del Senato. Oggi parliamo di una riduzione del numero dei parlamentari, conservando Camera e Senato. Il criterio più corretto è quello di un rapporto equilibrato tra il numero di abitanti e il numero dei parlamentari che rappresentano quel territorio, ed è la regola della democrazia.
Se la riforma dovesse essere sottoposta a referendum che esito prevede in merito ad affluenza e responso delle urne?
Sull’affluenza non mi esprimo, dipende da troppe variabili. Bisogna vedere se è associato ad altri quesiti o a consultazioni elettorali, se i partiti decidono di spingerlo o di ignorarlo. Sull’esito non ho dubbi: gli elettori sono largamente favorevoli a questo provvedimento, anche se per ragioni diverse. Ci potrebbe essere una percentuale bulgara, 95% a favore della riforma.
Quando il provvedimento sarà definitivo e attuato non vi saranno rischi per la tenuta del sistema, come paventato da alcuni osservatori?
Credo proprio di no. Oggi c’è l’esigenza di migliorare l’efficienza del nostro sistema, e se è vero che sono falliti i tentativi di fare grandi riforme costituzionali, penso a quella di Craxi, alle Commissioni bicamerali, o ai referendum, è pur vero che in questi decenni l’istituzione governo si è di gran lunga rafforzata. Oggi il 90-95% della legislazione approvata da Camera e Senato nasce dall’iniziativa governativa, ed è anche più incisivo il ruolo del Presidente del Consiglio. Il bicameralismo perfetto nella situazione attuale è molto più attutito di 20-30 anni fa. Quando c’è la volontà politica e un forte interesse su un provvedimento, si riesce a farlo passare in una settimana.
Un tema molto dibattuto è il risparmio generato dalla riforma: secondo Cottarelli solo lo 0,007% della spesa pubblica, per Di Maio 300 mila euro al giorno.
Quando si parla di costi e stipendi, e a maggior ragione dei politici, il risparmio applicato vale inevitabilmente doppio, ha un impatto maggiore sull’opinione pubblica. È vero però che c’è un problema di equità: in molte realtà del Paese c’è stata una riduzione dei costi, e la politica non poteva essere da meno. Ma più che sul risparmio io mi soffermerei sugli effetti della riforma: rallenterà l’attività politica? O avrà conseguenze positive? Secondo me nessuno dei due.
L’iter del provvedimento prevede adesso l’approvazione di altre riforme collegate. Le forze politiche riusciranno a mettersi d’accordo?
Sì, è necessario un completamento, ma sinceramente non è ben chiaro cosa vogliono fare. E riscontro tanta incertezza soprattutto nel Pd, che adesso deve spiegare bene ai propri elettori la sua inversione di rotta su questo provvedimento. Non mi sembra però che si tratti di una Caporetto per il partito, sono francamente stupito dai toni. In precedenza è stato commesso un errore, con un’opposizione di principio al provvedimento. Ora mi sembra il prezzo da pagare al Movimento 5 Stelle per garantire la sopravvivenza del governo. Ma mi sembra un ottimo compromesso: meglio pagare questo pegno, sulla riduzione dei parlamentari, piuttosto che sui termovalorizzatori o sulla Tav. Gli stessi 5 Stelle hanno ceduto su cose importanti, rispetto al loro programma demagogico stanno cambiando tanto.
La riduzione del numero degli eletti avrà ripercussioni anche sulla legge elettorale, un tema sempre caldo. Quale sistema è più efficace?
Dopo la fine del comunismo le democrazie dovevano seguire il ‘mainstream’ angloamericano: democrazie moderate in competizione al centro. È per questo che abbiamo avuto il bipartitismo e il bipolarismo. Ma da 20 anni a questa parte il mondo va in un’altra direzione, e questo accade anche in paesi tutt’altro che marginali. Accade nel cuore della democrazia liberalcapitalistica, nel Regno Unito. E accade negli Stati Uniti. Mi riferisco ovviamente a Johnson e Trump. Il modello americano, per esempio, per due secoli ha consentito di tagliare le ali e di eleggere candidati moderati, di centrodestra o di centrosinistra. Ora questo modello favorisce candidati radicali. E anche Johnson non è affatto un moderato. Lo stesso accade in Francia, Spagna, Grecia, Austria. Ma è davvero così di attualità il modello bipolare maggioritario? I sistemi maggioritari in epoca di frammentazione e polarizzazione consentono avere la maggioranza assoluta di Camera e Senato con il 23-24%. La prudenza suggerisce invece un maggior ruolo dei sistemi elettorali proporzionali: il modello tedesco, con un proporzionale rafforzato, consente di far fronte alle democrazie radicalizzate. Qualunque riforma elettorale, però, deve garantire una presenza parlamentare piuttosto ampia, pur con soglie, e il ruolo primario del Parlamento nella formazione del governo. In questa fase storica pensare di permettere agli italiani l’elezione diretta del governo mi sembra davvero un azzardo.
In questo scenario che prospettiva di crescita ha il Pd?
La fase è molto delicata. Il Pd, come anche Forza Italia, erano nati proprio nell’ipotesi maggioritaria, in uno scenario maggioritario e in un contesto bipolare bipartitico. Se si va in contesti più frammentati e proporzionali, meno maggioritari, la domanda è: a cosa servono partiti come il Pd e Forza Italia? Le difficoltà dei due potrebbero nascere anche da questo diverso contesto. Vorrei solo ricordare che alle elezioni politiche del 2006, la competizione in assoluto più maggioritaria e bipolare, i due poli insieme avevano il 99% dei voti. Nel 2018 abbiamo visto un altro film. Un conto è avere il Pd e Forza Italia in uno schema bipolare, un altro è vederli all’opera in un sistema in cui i due poli maggiori sono molto lontani da quel 99%. Credo che questo momento storico rappresenti per il Pd l’occasione per definire meglio la sua identità. Io non me la lascerei sfuggire.