Durante la seconda guerra mondiale c’era un detto, “Careless Talk Costs Lives” (parole in libertà possono costare vite umane), che faceva riferimento al fatto che spie tedesche introdotte nei pub potevano raccogliere segreti lasciati scappare davanti a pinte di birra! Anche le chiacchiere della cattiva informazione, a volte, fanno vittime, rendendo il percorso dei cittadini verso la consapevolezza e la costruzione dell’opinione libera difficile.

In quest’ultima settimana il circo mediatico televisivo, messa da parte la pandemia, applicando a morsa stretta lo stesso schema di diffusione delle notizie su un evento mostruoso come la guerra, sta occupando ogni spazio con le chiacchiere nei talk politici, maratone di esperti, avvalendosi di twitter, post Facebook, Instagram, video collegamenti. Le dirette costanti sulla distruzione portata dagli attacchi militari sulle città dell’Ucraina con i suoi effetti sui civili, i feriti e i corpi di chi non ce l’ha fatta, rischiano di svuotare di senso questo evento così temuto, allontanandolo dalla realtà per paradosso, a causa di questa continua esposizione ai nostri occhi. Tutto è consumato e poi, di nuovo, attraverso la ripetitività di immagini e parole, l’evento si incarna, e ci viene dato in pasto di nuovo e noi lo consumiamo ancora, e di nuovo il rito si reitera.

E’ pur vero, d’altro canto, che nel silenzio, un secolo fa, si è consumato, per anni, l’Olocausto: se allora ci fosse stato disponibile uno smartphone e l’impianto mediatico che oggi conosciamo, molte vite sarebbero state salvate. Mostrare è indurre alla consapevolezza e, raccontare quello che si mostra indirizza ad una prima lettura dei fatti. Il punto quindi, è: quanto serve far entrare l’instant war negli schermi di video e telefoni delle persone che dalla loro distratta posizione, dentro l’apparente, stabile quotidianità, seguono una guerra come un film?

Due anni di pandemia ci hanno assuefatti alla malia mediatica. Ora stiamo assistendo a momenti di gloria acquistati e negati, e il passaggio del testimone dal virologo al generale e all’analista di guerra. In Italia soffriamo di overdose di informazioni, una forma di consumismo comunicativo che appesantisce le menti e soddisfa superficialmente, lasciando l’impressione di aver capito tutto. Per contro, al momento sembriamo non essere toccati dai meccanismi della propaganda e dalla censura con la sua palese
manipolazione delle informazioni. La propaganda affonda le sue radici nel Paleolitico addirittura, questo a voler dire che l’uomo non si è mai veramente affrancato dalla sua animalità minacciosa e da una
gestualità di guerra che facendo leva sullo stato psicologico della sua audience, è capace di diffondere solo la parabola, tralasciando gli aspetti (umani, sociali, politici) della fase discendente dello stesso fatto.

Districarsi nell’intreccio soffocante tra eccesso di disinformazione e l’informazione, quella che può raccontare l’odiosità di questa guerra d’invasione, aggiungendo dati e conoscenze, senza fornire il fianco alla spettacolarizzazione dei fatti crudi, e al protagonismo divino delle conduttrici e dei conduttori televisivi, può non essere semplice e
richiede la nostra scelta che sta nelle nostre mani, un atto, a volte liberatorio, di on/off. Stiamo vivendo momenti cruciali della storia umana, eventi che stanno intensificando le loro manifestazioni, una velocità di accadimenti di portata storica che ci confonde, ma è arrivato il momento di prenderne coscienza, e all’essere umano vengono richieste azioni
definite, pur in presenza di fatti complessi e sfaccettati, e nessuna ideologia che possa più supportarci.

La cattiva informazione, pari alla becera propaganda, è quella che ci bombarda per interminabili ore con contenuti che fanno appello alla nostra pancia, quella degli scenari imminenti e lontani, che agisce sulle nostre coscienze, già ammaccate, alimentando una spirale di paura che ci morde da dentro e ci rende timorosi, anche meno lucidi. Il racconto va cercato tra le vite di chi decide di combattere e resta, e tra le vite di chi fugge: le donne con i figli in braccio e per mano, che attraversano i più vicini confini dei paesi europei per trovare una pacifica e libera convivenza. L’immagine di questi bambini al seguito delle madri è quella che non si fa vedere mai abbastanza in questi giorni, perché è quella che, alla lunga, racchiude la certezza della vittoria sul demone espansionistico che questa guerra porta con se.

Ognuno di quei bambini messi in salvo è la promessa che l’Ucraina non sarà dimenticata.

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