Sul voto abbiamo già pubblicato:
La caduta del Governo e la transizione politica – di Pier Paolo Baretta
Non sono soltanto affari nostri – di Salvatore Biondo
Bisogna puntare al pareggio, come nel 2018 – Intervista a Paolo Feltrin, di Vanni Petrelli
Tattica e strategia, i limiti dei nostri politici – di Carlo Puca
Campagna elettorale torrida, dunque. Nel 2018 fu al gelo di un febbraio di neve e ghiaccio (almeno al Nord, dove la feci io…), ora nell’estate più calda da tempo. Simbolica rappresentazione atmosferica della condizione nella quale si trova una politica irrequieta che, da troppo tempo, rincorre sé stessa alla ricerca di un equilibrio, di una stabilità, di una “normalità” che sembra svanita per sempre. Anche in politica …non ci sono più le mezze stagioni!
Stavolta, poi, la posta in gioco è davvero alta e il confronto si preannuncia acceso, coerente con la calura estiva. A cominciare dalla conquista del primo posto. Il Partito Democratico e Fratelli d’Italia si contendono, infatti, la posta di primo partito, e lo faranno in volata, ben distanziati dagli altri; due forze politiche davvero alternative tra loro per storia, cultura, collocazione. Il che accentua le discriminanti e caratterizzerà, mano a mano che si avvicinerà al voto, il tenore ideologico dello scontro, avviatosi con toni da ’48.
Ma essere il primo partito stavolta non basta per vincere le elezioni: con il rosatellum servono più che mai alleanze e coalizioni! Perciò Giorgia Meloni ed Enrico Letta, anziché giocarsi la partita a “singolar tenzone”, come piacerebbe molto ad entrambi, convinti di guadagnarci in chiarezza e quindi in voti, devono vedersela con i rispettivi compagni di viaggio: ereditati, scelti o ricercati che siano.
A destra la coalizione ricalca il passato. I problemi, che non mancano, non attengono alla sua composizione, ma anche in questo caso a un primato. La leadership di Giorgia Meloni e la sua candidatura a Presidente del Consiglio preoccupa non poco Forza Italia e non entusiasma Salvini; il quale, in sovrappiù, preannuncia la volontà di “nominare” i ministri prima del voto, facendo irritare gli altri due partiti della coalizione e, soprattutto, incappando in una grave gaffe costituzionale, essendo la nomina dei ministri prerogativa del Capo dello Stato. Prerogativa che in passato, con maggioranze certe e partiti forti, era più formale che sostanziale, mentre nei tempi recenti, di partitocrazia debole, è stata esplicitamente esercitata.
Se a destra queste tensioni vengono abilmente tenute, per ora, sotto la cenere, a sinistra e al centro non si manca, invece, di usare tutti gli altoparlanti a disposizione per diffondere nell’elettorato, già di suo svogliato, più che le differenti opinioni, le polemiche, i veti…
Il paziente tentativo di Letta di tenere insieme tutti i pezzi è lodevole, ma rischiosissimo. I risultati ottenuti potevano aprire uno scenario competitivo sul piano elettorale e interessante per la prospettiva politica, se le invitabili turbolenze, che accompagnano queste complesse situazioni, non si fossero trasformate in burrasca. Ci ha pensato Calenda a far scoppiare il temporale estivo. Sull’onda del tentativo, importantissimo, di assorbire l’elettorato moderato di Forza Italia – tentativo non impossibile vista la sudditanza di Berlusconi alla destra estrema, che ha provocato l’arrivo in Azione di personaggi del calibro di Gelmini, Carfagna e Brunetta – Calenda ha esagerato pensando di “purificare” una coalizione che, per vincere (tanto più dopo aver rotto con Conte!), non può escludere né la sinistra, né i fuoriusciti di 5 Stelle. A cominciare da Di Maio che, spiazzato dallo scioglimento anticipato delle Camere, avendo fatto le sue mosse in funzione della prossima primavera, non ha molte cartucce da sparare e deve cercare di tutelare sé stesso, prima ancora della sua pattuglia.
Poiché possiamo escludere che Calenda immaginasse una coalizione elettorale (non strategica) vincente alla condizione che assieme al PD ci fosse solo lui e nessuno a sinistra, la sua spregiudicata mossa politica è, a dir poco, deludente. La rottura dell’accordo col PD nel giro di poche ore, pone un problema di affidabilità e, soprattutto, rappresenta un errore strategico. Con la rottura, Azione si tira fuori dal gioco, rinunciando a perseguire proprio l’obiettivo per il quale il patto era stato siglato: spostare l’asse della coalizione di centro sinistra verso un riformismo più liberale. Per fare cosa? Una piccola forza identitaria, che non sposta grandi quantità di elettori…
Perché è questo il punto: una possibile “egemonia” politica dei riformisti liberali sui riformisti radicali di sinistra si è troppo spesso arenata in Italia non perché ci fosse chi tirava a sinistra (non ci possiamo stupire che esistano oggi Fratoianni, ieri Bertinotti…). Ma perché i liberali, i socialdemocratici (in senso lato), una parte dei socialisti e dei cattolici, di fronte alla tendenza egemonica della sinistra, non hanno avuto la forza, la pazienza, lo stomaco di stare “dentro” questo processo (sudore, fango e, come è stato detto… altro) per cambiarlo, condizionarlo; hanno preferito ritirarsi, nel migliore dei casi, a una funzione minoritaria o a organizzare un proprio campo da gioco (e hanno perso). O, nel peggiore, passare dall’altra parte tentando la stessa operazione in un campo culturalmente non proprio (è il caso di socialisti sinceri alla Brunetta).
In queste ore viene citato più volte il precedente dei governi Prodi, fatti cadere dalla sinistra… Che cosa hanno fatto i riformisti, in quei frangenti? Se, ad esempio, si fosse andati subito al voto, Prodi avrebbe avuto larghe possibilità di prevalere in uno schema ben diverso da come poi sono andate le cose. E, comunque, bisognava tentare…
Fatica improba certamente quella di riformare il riformismo; ma come dimostra l’irrilevante esito elettorale di ogni avventura alternativa, il campo da arare resta quello principale… La Bad Godesberg di cui parla Calenda, accusando il PD di non averla fatta, non è un problema di altri cui assisti e poi ti assolvi, illudendoti di averla fatta da solo. No! Che la forza più grande (quella che sposta gli elettorati…) possa prendere una direzione oppure un’altra è anche un problema tuo…. E quando si muove nella direzione sperata (questo significava l’accordo PD-Azione!) va tenuta agganciata, non esposta al corteggio altrui.
È un problema di responsabilità. La stessa per la quale Cottarelli decide di candidarsi col PD. Se l’obiettivo di Calenda è dare vita ad una impresa propria, di eccellenza, di nicchia, di testimonianza, allora tutto si spiega. Se il suo problema, come dichiara, è spostare il baricentro del campo riformista della politica italiana e orientare, in tal senso, gli elettori, allora bisogna condividere, nel bene e nel male, le sorti delle forze che possono raggiungere questo risultato, battendosi per realizzarlo. Entrambe scelte legittime e utili quando si parla di prospettiva. Ma quando si parla di elezioni, vale solo la seconda (e personalmente, penso, sempre preferibile).
La candidatura europea di Calenda col PD (ovvero dentro lo schieramento di centro sinistra) aveva segnato la linea, l’immagine e la collocazione dello stesso PD; così come, in questi giorni, il patto stava dimostrando che la citata Bad Godesberg era possibile ed era in atto.
Calenda sbagliò allora a lasciare il PD, quando fu deciso il governo con i 5 Stelle. Aveva la possibilità di organizzare una legittima opposizione interna, di continuare a coltivare, seppure perdendo (bisogna anche saper perdere), la prospettiva per la quale era entrato, non solo con la candidatura di capolista alle europee, ma addirittura, nei manifesti elettorali, con il suo simbolo assieme a quello del PD.
Peraltro, che ci fosse la possibilità di giocare una partita interna è dimostrato da quanto è successo dopo: la caduta di Zingaretti, l’arrivo di Letta e la rottura con Conte. Lo stesso errore lo aveva commesso Renzi, con il quale ora, significativamente, Calenda si allea…
Oggi era necessario fare lo stesso: restare per lottare dentro il solo campo alternativo alle destre. Un campo in cui c’è di tutto. Se si vuole che produca bisogna ararlo con pazienza e tenacia, spostando ogni sasso che impedisce alla terra di dare i suoi frutti. Cosa che però si può fare solo da dentro… La responsabilità del Calenda, che vuol essere statista, non è solo verso i suoi “25… elettori”.
Comunque, poiché il nodo è irrisolto, succederà ancora che sinistra e centro si trovino di fronte al dilemma: “meno siamo più belli sembriamo” o “piuttosto di niente, meglio piuttosto”…
Come irrisolto è il nodo del rapporto con i 5 Stelle. Quel che resta del Movimento non va sottovalutato. La responsabilità grave di aver fatto cadere Draghi non verrà perdonata dagli elettori, ma sarà attenuata dai contenuti sociali della piattaforma 5 Stelle, molto sentiti in questa particolare momento di difficoltà economiche; a patto che Conte sappia narrarli non da “avvocato degli italiani”, ma da leader politico che, nonostante tutto, gode ancora di un più che discreto consenso personale.
L’equivoco, però, sta a monte e consiste nell’aver considerata quella coi 5S come una relazione privilegiata, strategica, esaustiva, piuttosto che un’alleanza importante, anche molto importante, ma non esclusiva e definitiva. Questo equivoco, prolungatosi nel tempo (e ancora recentemente propugnato da Bettini), ha finito per produrre, la sera della caduta di Draghi, una reazione coerente: la rottura irreparabile.
Considerare imperdonabile l’errore di Conte di fare cadere Draghi è sacrosanto; ma non bisogna dimenticare che l’alleanza che aveva portato il PD a formare il governo Conte due è nata per evitare esattamente quello che potrebbe succedere il 25 settembre, ovvero la formazione di un governo di destra.
Quel che valeva allora poteva valere anche oggi… Insomma: si può scegliere tra Calenda e Conte, ma perdere entrambi…
Ma forse l’equivoco principale nel quale sono incappati tutti gli attori del centro sinistra è stato proprio nel perseguire due esigenze, entrambe importanti, ma non compatibili in questa congiuntura. Si è, cioè, confusa la alleanza tattica tra tutti, necessaria per vincere le elezioni, a causa di una legge elettorale alla quale colpevolmente non si è messo mano, con la ridefinizione strategica degli assetti del campo riformista, progressista, radicale.
Ma ormai è tardi e bisogna giocare il tutto per tutto. Mancano ormai meno di dieci giorni alla presentazione delle liste e si sa che, in politica, sono un tempo lunghissimo, nel quale i ribaltamenti sono tutti possibili. Compresa la ricomparsa di un’idea finora ignorata, quando non aborrita, ma che in altri momenti ha dato i suoi frutti: desistenza.
Al voto manca un mese e mezzo. Meno di quanto servirebbe, ma non troppo poco se ora ci si concentra su contenuti e proposte, buttando il cuore oltre l’ostacolo; perché, alla fine, un elettorato smaliziato, astensionista, diffidente e mobile potrà sentirsi attratto dal centro sinistra solo se il messaggio, di tutte le forze politiche che stanno dalla parte opposta a quella dei presunti vincitori, è chiaro e onesto: non fingere di essere uniti per forza, ma mostrare in modo convincente che ciascuno saprà sacrificare non tanto la propria identità, quanto le “spigolosità” programmatiche, per assicurare un governo che tenga insieme crescita, diritti, ambiente e lavoro.
Elezioni torride ma lucidissimo commento di Pier Paolo Baretta. Non siamo nel 48 e non c’è De Gasperi e Togliatti….ma la leadership del vincitore dovrà’ fare i conti col presidente Mattarella .. e poi gli amori finiti possono riaccendersi come nelle favole di Cappuccetto Rosso ,Biancaneve o in quelle coi Draghi..