Sulla situazione politica e sul voto del 25 settembre abbiamo già pubblicato:
La caduta del Governo e la transizione politica – di Pier Paolo Baretta
Non sono soltanto affari nostri – di Salvatore Biondo
Bisogna puntare al pareggio, come nel 2018 – Intervista a Paolo Feltrin, di Vanni Petrelli
Tattica e strategia, i limiti dei nostri politici – di Carlo Puca
Le torride elezioni e la fatica di riformare il riformismo – di Pier Paolo Baretta
Il ruolo dei social nella sfida elettorale – di Vanni Petrelli
Il nostro voto, come? – di Mirella Ferlazzo

In Italia i cittadini si sono sempre più abituati ad una politica troppo spesso autoreferenziale, incapace di agire concretamente sulla qualità della vita delle persone, sulle condizioni di lavoro, sui salari e sull’ampliamento dei diritti sociali e civili. La politica degli ultimi anni ha cercato di inseguire una strisciante frustrazione sociale dovuta al peggioramento delle condizioni economiche complessive del paese, che ha generato un’ondata elettorale anomala capace di portare nel 2016 il M5S a rappresentare da solo un terzo del Parlamento. Da quel risultato elettorale e da un’eccessiva frammentazione parlamentare dovuta ad una legge elettorale inadeguata sono nati i due governi Conte, espressione della necessità del M5S di allearsi dapprima con la Lega e successivamente con il Partito Democratico, rispettivamente seconda e terza forza politica uscita dalle urne. Durante questa legislatura si è poi contemporaneamente assistito ad uno sfaldamento di alcune forze politiche vittime di mini scissioni interne che hanno portato ad ulteriori frammentazioni parlamentari, che si sono rivelate utili alla formazione nel febbraio del 2021 di un governo di unità nazionale guidato da Mario Draghi, indicato direttamente dal capo dello Stato Sergio Mattarella successivamente rieletto Presidente della Repubblica. Da questo governo soltanto i Fratelli D’Italia guidati da Giorgia Meloni sono rimasti fuori per un puro calcolo elettorale. Un governo di unità nazionale così eterogeneo, destinato a gestire le gravi emergenze pandemica, economica e della guerra in Ucraina, sarebbe stato incompatibile con l’aumento dei consensi, ragione per la quale alla vigilia delle elezioni di settembre il partito della Meloni sembrerebbe in pole position nei sondaggi. 

Nell’ultimo decennio tanti leader hanno spesso anteposto la tattica alla strategia politica. La tattica è fondamentale per gestire il consenso, minimizzare le conseguenze della litigiosità del ceto politico, ridurre i rischi per le leadership ed in sostanza ampliare la longevità delle carriere politiche di chi guida i partiti del nostro Paese. Giorgia Meloni in questo senso rappresenta una campionessa della tattica. Oggi si presenta alle elezioni come la novità che avanza e senza avere responsabilità politiche sul passato, pur essendo stata già vicepresidente della Camera del 2006 al 2008 e niente meno che Ministro della gioventù nel quarto governo guidato da Silvio Berlusconi tra il 2008 e il 2011, quello che terminò per capirci con la crisi finanziaria dello spread e ci consegnò nelle mani del governo tecnico guidato da Mario Monti. Non fraintendetemi però, il fatto che Giorgia Meloni sia sulla scena politica da molto tempo non rappresenta a mio avviso un male, tuttavia mette in evidenza come si cerchi di rappresentare comunque una novità per sfruttare la rabbia delle persone, anche quando in realtà si è per storia personale espressione della conservazione, avendo avuto importanti responsabilità politiche e di governo. Si può dire lo stesso nel campo liberale con Forza Italia ancora guidata saldamente dall’ottuagenario Silvio Berlusconi o dalle nuove formazioni di ispirazione liberale create da Matteo Renzi e Carlo Calenda, entrambi eletti grazie ai voti degli elettori del Partito Democratico. La questione della tattica dunque rappresenta il vero limite della classe politica italiana. Quello che manca di conseguenza è una visione strategica che sia capace di immaginare una visione del futuro del Paese da qui a venti/trent’anni. Una visione che superi le scadenze elettorali e ambisca a condurre il Paese verso una transizione economica non più rimandabile.

Questi anni di tatticismo esasperato hanno prodotto l’implosione della politica, incapace di eleggere il Presidente della Repubblica, salvo rifugiarsi nella garanzia rappresentata da Sergio Mattarella e di dotarsi di una legge elettorale in grado di garantire maggioranze di governo robuste e coese. Le elezioni di settembre rischiano di essere quelle con la più alta percentuale di astensionismo degli ultimi anni. Tuttavia potrebbero non segnare la fine di un populismo alla continua ricerca di interpreti capaci di cavalcare l’onda dello sdegno del momento. Forza Italia seppe farlo alla fine della Prima Repubblica. Il M5S durante la crisi dei partiti tradizionali protagonisti della seconda Repubblica. Fratelli d’Italia, eredi politici di Alleanza Nazionale e della fiamma tricolore, vorrebbero farlo all’esito di questa stagione complessa e al tempo stesso caotica. Per questa ragione mai come ora sarà necessario dare forza al compito storico del Partito Democratico Italiano, nato per riformare e dare stabilità al Paese e proprio per questo troppo spesso costretto ad anteporre la necessaria ricerca del consenso alla naturale vocazione al senso di responsabilità.

Viviamo per la prima volta dalla fine della seconda guerra mondiale in un mondo in cui la pace globale è seriamente minacciata dalla crisi politica con la Russia. Un mondo sferzato da due anni di pandemia di Covid e dalla conseguente crisi economica che ha ampliato le già esistenti disuguaglianze sociali ed economiche. Una società che necessita di nuove forme di lavoro agile che consentano di vivere meglio e che proprio per questo devono essere regolamentate a tutela dei lavoratori. Per queste ragioni le elezioni di settembre assumono un significato decisivo per il futuro dell’Italia. Da una parte Fratelli d’Italia alleata di un centrodestra sempre uguale a se stesso con Berlusconi e Salvini che provano a tornare al Governo fischiettando dopo i disastri di cui sono stati protagonisti nel 2011 e facendo finta di non aver sostenuto il governo di Mario Draghi fino al mese scorso. Dall’altra un centrosinistra guidato dal Partito Democratico, capace di ricostruire la propria credibilità politica nelle elezioni amministrative degli ultimi due anni, dove ha espresso Sindaci e consiglieri comunali di città importanti come Roma, Milano, Napoli, Torino, Bologna e di Regioni che hanno saputo affrontare con determinazione la crisi sanitaria. La politica sarebbe una cosa semplice. Basterebbe analizzare le politiche della Regione Lazio guidata da Nicola Zingaretti e verificare come la sua amministrazione abbia saputo affrontare con serietà ed abnegazione la crisi di questi anni e confrontarle con quelle del centrodestra guidato da Attilio Fontana nella regione Lombardia. Il risultato elettorale delle prossime elezioni politiche passerà inevitabilmente anche dal risultato che il centrosinistra e il Partito Democratico sapranno confermare a Roma e nel Lazio, dove già esiste una nuova classe politica in grado di guidare e riformare il Paese. A patto che per il prossimo mese si parli agli italiani dell’Italia che immaginiamo per i prossimi vent’anni. È la visione del futuro l’antitesi all’eterno ritorno del populismo.

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