Con questa intervista al politologo Paolo Feltrin prosegue il nostro approfondimento sulla situazione politica e sul voto del 25 settembre. Sul tema sono già online gli articoli “La caduta del governo e la transizione politica”, di Pier Paolo Baretta, e “Non sono soltanto affari nostri”, a firma di Salvatore Biondo.

Il 25 settembre torneremo alle urne per eleggere il nuovo Governo. Quanto era prevedibile una fine così repentina dell’Esecutivo guidato da Draghi?
Col senno del poi la domanda che ci si può fare è come sia riuscito questo Governo a durare così a lungo, non come mai è caduto. Bisogna dare un senso agli avvenimenti: io non l’avevo previsto prima, ma ora è palese come ci sia stata una contraddizione assoluta tra il voler fare grandi coalizioni, governi di unità nazionale che possono durare solo se hanno un unico scopo, l’emergenza, e nel contempo fare riforme radicali che per definizione hanno bisogno di una maggioranza coesa. Insomma, appare davvero impossibile fare un governo di unità nazionale e contemporaneamente fare riforme radicali. Un esempio tipico è quello di Churcill: un Governo nato per vincere la guerra. Il giorno dopo è andato a casa. Noi l’avevamo già visto con i governi di unità nazionale negli anni ’70, e più recentemente con Ciampi e con Monti. Ma vorrei sottolineare che passati 2-3- giorni dalla caduta del governo Draghi, dopo un momento di iniziale sconcerto nell’opinione pubblica, è come se la notizia fosse sparita dall’orizzonte. Semplicemente nessuno ne parla più.

Quale partito è risultato più danneggiato dalla fine dell’esperienza governativa?
Chi è rimasto con il cerino in mano è sicuramente il Pd. Anche Draghi aveva compreso che non c’erano più le condizioni per andare avanti. Proprio perché le larghe coalizioni hanno un solo obiettivo, al massimo due, quando si è trattato di fare le riforme si sono dovute mettere insieme posizioni opposte, tra loro inconciliabili. La conseguenza è stata che le (poche) riforme approvate sono state dei pasticci, dei compromessi di basso profilo tra forze incompatibili. Se al Pd si può fare una critica, è quella di esser rimasto troppo avvinghiato a Draghi, una sorta di eccesso di responsabilità nazionale, mentre le altre forze politiche un po’ alla volta prendevano libertà di movimento. Per di più, non volendo mettere in difficoltà il governo Draghi, il Pd ha cercato di caratterizzarsi su temi che in questo momento erano impropri, come la cannabis e lo ius scholae. Inoltre la modalità con cui è finita l’esperienza di Draghi ha fatto saltare la strategia che il partito di Letta aveva tenuto per 2 anni e mezzo, e cioè il tentativo di inglobare i 5 Stelle in una coalizione strutturale di centro sinistra.

A proposito del Pd: come giudica l’alleanza con Calenda?
Se il Pd avesse voluto massimizzare i suoi voti gli sarebbe convenuto andare da solo, sia perché non avrebbe avuto fughe a destra o sinistra, sia perché sarebbe stata evidente a tutti gli elettori di centrosinistra la logica del voto utile. Ma la legge elettorale, nella parte dei collegi uninominali, premia le coalizioni, quindi il problema non è se debba prendere più voti il Pd, ma diventa quanti voti pende la coalizione. Sotto questa profilo l’ideale sarebbe stato avere dentro il maggior numero possibile di partiti… si potevano tenere dentro perfino i 5 Stelle. Non a caso, prima della caduta di Draghi, la strategia del gruppo dirigente del Pd era chiara: un accordo con i 5S, come in tante regioni e in tanti comuni. Oggi questa prospettiva strategica è andata in fumo e bisogna limitare i danni, ovvero bisogna cercare di ottenere una sorta di ‘pari e patta’, tentando di raggiungere un esito che proporzionalizzi il risultato in termini di seggi alla Camera e al Senato. Se ciò accadesse il giorno dopo le elezioni ‘tutti liberi’, ognuno riprende la sua autonomia e libertà di manovra, proprio come è successo nel 2018. Insomma, l’ipotesi più ottimistica (e auspicabile) è un risultato simile al 2018. Non un 33-33-33 come allora, ma un risultato che non crei maggioranze solide e autosufficienti alla Camera e al Senato.

Un impegno di Draghi nella campagna elettorale, anche in modo indiretto, può cambiare le sorti del voto?
Non credo che lui voglia impegnarsi, perché non vuole fare la fine di Monti. Da un punto di vista personale il suo futuro è direttamente proporzionale alla sua lontananza dal conflitto politico. Se ha qualche opzione in Europa o al Quirinale la sua ‘salvezza’ è legata al fatto che se ne stia fuori dalla diatriba. E poi non sono così convinto che le caratteristiche di questi ‘tecnici’ al governo siano poi davvero trasferibili nell’arena politica. Oltre a Monti vale la pena riportare alla memoria l’esperienza deludente di Dini. Insomma, non esistono uomini per tutte le stagioni. Il discorso di Draghi al Senato, ad esempio, era stellarmente lontano e diverso dall’impostazione che sarebbe stata usata da un leader politico, sembrava la relazione di un presidente di una banca o di una società quotata in borsa. I sintesi, mirava a tutto tranne che al consenso dell’uditorio. Cosa ovvia visto che Draghi interpreta fino in fondo e al massimo livello l’agenda delle classi dirigenti, fatta di responsabilità, di rispetto degli accordi internazionali e delle alleanze militari, di attenzione al vincolo del debito pubblico, tutte cose senza le quali non governi in nessuna democrazia contemporanea. Ma con questa agenda governi ma non vinci le elezioni, punto e a capo. I voti li prendi a suon di promesse elettorali, anche se poi il più delle volte non riesci a governare. Detto questo, non si può escludere un Draghi bis, specie se alla fine il voto desse un esito proporzionalizzato; inoltre il premier avrebbe sicuramente meno problemi di quelli incontrati questi mesi, non fosse altro perché l’orizzonte elettorale è spostato in avanti di 5 anni con conseguente riduzione del tasso di adrenalina partitica. Poi, forse, a metà legislatura potrebbe prendere il posto di Mattarella, il quale facendo un beau geste potrebbe trovare sensato dimettersi.

Il centro, anche se al momento resta una entità indefinita, può diventare l’ago della bilancia?
Come in tutte le democrazie radicalizzate oggi il centro resta uno spazio vuoto, quindi non decide le elezioni. Se il Pd avesse avuto una maggiore elasticità strategica avrebbe potuto tentare il campo largo. Come ho detto, gli resta la speranza di pareggiare e proporzionalizzare il voto. I pronostici sono tutti a favore del centrodestra, ma attenzione: i pronostici sono previsioni non sono consultivi. I conti si fanno alle ore 23 del 25 settembre, quando l’arbitro fischia la fine della partita. E poi non sottovaluterei il peso dei fattori internazionali, e quindi se e quanto i temi internazionali e le stesse potenze mondiali giocheranno un ruolo nella fase della campagna elettorale. Mi chiedo, ad esempio, quanti dossier gireranno nelle redazioni dei giornali?

Alle elezioni politiche del 2018 c’è stata l’affluenza più bassa della storia: come andrà a settembre?
È difficile dirlo, tuttavia si può avanzare l’idea che più elettori ci saranno, più gli schieramenti si riequilibreranno. Inoltre, se la competizione sarà molta accesa la gente tornerà a votare. E se è vero che l’affluenza è sempre più bassa, ricordo che resta sempre una delle più alte d’Europa, quindi si sta semplicemente riallineando alle medie internazionali. Una partecipazione intorno al 70%, dal mio punto di vista, va giudicata positivamente: bisogna vedere se e quando entrerà in campo la dimensione internazionale, il richiamo alle scelte di civiltà, la paura per il voto all’altro schieramento. La gente è preoccupata, il voto alle politiche è sempre più meditato rispetto agli altri tipi di elezioni, specie quelle meno rilevanti per il futuro delle persone (come quelle europee). Infine, nonostante ciò che si dice, gli elettori non sono sciocchi, sanno bene quanto il futuro di una nazione dipenda dal voto per il Parlamento. Infine va tenuto conto che si vota a fine settembre, potrebbe accadere che dal punto di vista della partecipazione vada meglio rispetto alla tradizione del voto in primavera. Anche solo perché c’è meno gente in vacanza, siamo già rientrati dalle ferie, le scuole sono aperte, e così via.

Si parla tanto di legge elettorale e delle conseguenze nefaste delle sue storture. Ma esiste un sistema perfetto?
Sono stati persi 3 anni con l’idea un po’ ingenua che si sarebbe stato tempo per farle in un imprecisato momento opportuno. Il problema è che le leggi elettorali si devono adeguare alle sfide del momento storico. Nelle democrazie radicalizzate è sicuramente preferibile un sistema proporzionale a un sistema maggioritario perché si minimizza il rischio maggiore, quello di dare tutto il potere ad una formazione politica radicale, come del resto insegna bene l’esperienza americana con Trump e quella inglese con Boris Johnson.

In questo scenario qual è il ruolo dei corpi intermedi?
La radicalizzazione ha prodotto anche lo spappolamento dei partiti un po’ in tutto l’occidente, L’Italia però ha una grande risorsa, come la Germania: una solida struttura di corpi intermedi. Le associazioni di rappresentanza degli interessi non fanno solo quello, ma svolgono appunto anche funzioni di corpi intermedi, di tramite tra la società e le istituzioni. Per certi versi si chiede loro uno sforzo politico, un ruolo politico, anche di aiuto a ricostituire i partiti, come fu all’origine di questa storia nel corso dell’Ottocento, quando i partiti nacquero e trassero linfa vitale dalle forze sociali, dai corpi intermedi. Nel periodo del Covid essi si sono tutti (ri)legittimati proprio per questo solido rapporto tra società e istituzioni. E poi può capitare che inevitabilmente, di fronte ad esiti complicati dal punto di vista elettorale, si torni a situazioni in cui l’emergenza veda i corpi sociali assumere una funzione di supplenza, come con Amato o Ciampi. Di qui la necessità che le forze sociali siano più generose nello sforzo di aiutare i partiti, fino ad essere pronte a esercitare un ruolo di supplenza se necessaria.

Ps (8 agosto 2022):

Due aggiunte dopo i fatti recenti, la prima ottimistica, la seconda pessimistica: 

1. vediamo come vanno a finire i tempi supplementari (8-21 agosto), ovvero in politica mai dire mai; 

2. “si perde o per nostro diffetto, o per colpe di tempo o di fortuna” (Ariosto). 

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