All’indomani del risultato delle elezioni politiche del 4 marzo 2018, apparve chiaro che l’Europa avrebbe rappresentato il terreno di confronto e di scontro per il futuro del nostro Paese. Nacque da qui l’idea di un convegno dedicato a un’altra idea di Unione, basata sulla riduzione delle disuguaglianze, il benessere economico e sociale, gli investimenti in infrastrutture e sviluppo, l’allargamento dei diritti, la circolarità. Era il 23 ottobre 2018 e a introdurre quel convegno fu Paolo Gentiloni, indicato oggi come prossimo commissario Ue per il nostro Paese. Un intervento che indicava la prospettiva, ancora attuale e che, nel nostro piccolo, speriamo sia stato di buon auspicio*.
Partirò da una constatazione di fondo: in questo paesaggio dell’Unione Europea, caratterizzato dalla sua evoluzione istituzionale e di costituzione materiale, a un certo, punto più o meno attorno alla metà di questo decennio, si è scatenata una tempesta. Da un lato, dobbiamo quindi avere presente il quadro in cui ci troviamo, la sua evoluzione storica, e, dall’altro, dobbiamo capire che il livello della crisi, così come si è presentato non molti anni fa, ha rappresentato un salto in questa dinamica. C’è stata una sorta di “tempesta perfetta”, nella quale si sono moltiplicati tra loro diversi fattori di crisi.
Il primo fattore è stata la crisi economica, una crisi che è stata importata dagli Stati Uniti, nei quali aveva avuto origine, ma che in Europa si è prolungata più a lungo, e ha avuto conseguenze sociali più durature che hanno aggravato la differenza tra i diversi Paesi europei e all’interno dei singoli Paesi europei.
Non ci sono stati effetti disastrosi, ma siamo stati a lungo sull’orlo di effetti disastrosi, basti pensare alla parabola di Tsipras, che io ritengo ammirevole, perché ha salvato il suo Paese, ed era la cosa più importante che doveva fare, e spero si possa salvare alle prossime elezioni. Ma è bene ricordare che quella sinistra più o meno populista che era accorsa ad acclamarlo quella domenica del famoso referendum, oggi invece lo considera un traditore. La crisi, quindi, non c’è stata. E questo per il coraggio, il realismo, la forza che ha manifestato in quel contesto la leadership greca, e che è stata coronata dalla conclusione del decennio della troika. Quella crisi, però, in Grecia ha lasciato cicatrici profonde.
Il secondo fattore è stata la grande crisi migratoria: non che non ci fossero stati fenomeni migratori in Europa nel corso dei decenni precedenti, ma concentrati su piccoli numeri, sui rifugiati politici. Poi negli anni ‘90 ci sono stati fenomeni rilevanti, prodotti dalle guerre nei Balcani, ma nulla di paragonabile a quello a cui si è assistito tra il 2014 e il 2016.
Nell’incrocio di queste due dinamiche, la crisi e l’esplosione dei flussi migratori, è arrivata in una notte di giugno del 2016 la Brexit: per la prima volta, e non da uno Stato qualunque ma da uno dei 4 più grandi paesi europei, c’è stata la messa in discussione della inevitabilità del percorso europeo, di questa unione che era nata con 6 componenti ed era finita in 28, aveva dato asilo prima alle ex dittature fasciste e poi alle ex dittature comuniste, era diventata un modello. Brexit dimostra che quel modello è diventato reversibile, perché dall’Unione si può entrare ma si può anche uscire, e ne esce un paese molto rilevante come l’Inghilterra.
In questo meccanismo, irrompe un uragano politico, che deriva dal convergere di queste due grandi crisi, economica e migratoria, sociale e politica, e dal campanello d’allarme dell’uscita di uno dei Paesi membri più importanti. In questo contesto, in Europa ha un incremento enorme la spinta nazional-populista, sovranista, anche qui non perché non ci fossero stati fenomeni simili in precedenza, ma la spinta maggiore è certamente collegata al periodo particolare che viviamo negli ultimi 10 anni, ed è una reazione all’ingiustizia sociale e alla crisi economica che l’ha messa in evidenza.
Il contesto in cui si lavora è quello descritto, con tutte le sue difficoltà, ma la spinta va ben oltre il contesto europeo, perché nel novembre del 2016 negli Stati Uniti, quindi poco dopo Brexit, vince in maniera del tutto inaspettata un Presidente che ha caratteristiche molto particolari. Attenzione quindi, che il tema di cui stiamo parlando, ovvero il mix tra le disuguaglianze sociali, il disagio e la rabbia delle fasce più basse della classe media, quelli che Roosevelt, e non Trump, aveva definito i “forgotten men”, espressione poi ripresa da Trump, da un lato, e dall’altro la domanda di identità, la paura che questa identità venga messa in discussione dalla globalizzazione, dall’interculturalismo, dalle diversità che si mescolano, questi sono due elementi globali, non sono soltanto collegati alle difficoltà e alle intemperie che viviamo in Europa. Naturalmente hanno grandi differenze, però non è un caso che alla fine ci sia uno slogan che accomuna tutti in questa spinta: “Prima di tutto gli italiani”, o “gli americani”. E siccome ogni paese, anche quelli più piccoli, hanno pagine di storia a cui riferirsi, in questa componente che rimanda al passato la domanda identitaria trova risposta nel sovranismo, nel nazionalismo, nel populismo, fenomeni che si ritrovano nella storia, pagine gloriose di ciascun popolo, di ciascun paese, di ciascuna identità nazionale. È chiaro che questo non fa multilateralismo, perché ne è l’esatto contrario: il fatto di essere culturalmente affini può servire, ma non fa multilateralismo, perché alla base c’è la convinzione che il proprio paese viene prima di tutto e non vi sono alleati in questo caso.
Il secondo dato è che questo mette in discussione il modello il sistema liberale che veniva dato come irreversibile poiché si andava diffondendo e ci si chiedeva se fosse il caso di esportarlo in altri paesi. Ma è proprio questo modello, che coniuga democrazia e libertà, ad essere messo in discussione, non solo perché vi sono modelli che mettono in discussione sia la democrazia che la libertà, grandi paesi che contraddicono questa tesi, ma anche all’interno di casa nostra, in Occidente, il nesso tra democrazia e libertà viene messo in discussione, e questo riguarda anche la politica italiana. Eppure sebbene sia questo il quadro in cui operiamo, quando si parla di un’onda sovranista che travolge l’Unione Europea, non bisogna pensare che tutto sia perduto. Primo perché non esiste il multilateralismo sovranista, esiste il contrario. Secondo perché Brexit è stato un fallimento, quindi al di là della discussione interna al Regno Unito, se si riandrà a votare o meno, non vi è dubbio che dal punto di vista economico, sociale e culturale persino per i britannici la decisione si è rivelata autolesionistica. Terzo: anche dal punto di vista dell’opinione pubblica, se interrogata, questa risponderebbe se uscire o meno dall’Unione Europea con un 10%, in Italia invece il 20%, 1 italiano su 5. Si tratta del doppio rispetto al resto dell’Europa, ma parliamo comunque di numeri non inarrestabili. Io penso che le elezioni del 26 maggio debbano avere al centro una domanda molto semplice: “vogliamo stare in Europa o non vogliamo stare in Europa?”. Alla fine la iper-semplificazione della discussione pubblica porta a questa conclusione. A 30 anni dalla fine della Guerra Fredda, della caduta del Muro di Berlino, riteniamo praticabile una strada che percorra questa linea? All’osso la decisione a cui siamo chiamati è esattamente questa: dentro o fuori? Si voterà su questa scelta di fondo, che non riguarda il passato ma è un problema che riguarda il futuro: se questo futuro ce lo immaginiamo tra singoli stati nazionali che si fanno concorrenza economica, se va bene, o tra i quali si alimentano tensioni diverse, se va male, oppure se invece al contrario vogliamo scommettere sull’Unione, e in questo sarà fondamentale anche il ruolo del nostro Paese.
Penso che l’Italia sarà molto osservata alle elezioni europee del 26 maggio, e importante sarà come ci arriveremo alle elezioni, se rischiamo in pochi mesi di mettere in forse la fatica fatta dalle imprese, dal mondo del lavoro, dalle nostre comunità negli ultimi 6 anni. Fatica che aveva prodotto dei risultati prodotti e messi in discussione in appena 6 mesi, mesi in cui l’Italia è diventata un paese più isolato, meno sicuro, più povero. Luca Ricolfi quantifica in 300 miliardi di euro quello che l’Italia avrebbe perso in questo periodo, si parla ovviamente di capitalizzazioni di borsa e di aumento dei tassi di interesse, ma è pur sempre un dato significativo. Sarà una lunga storia capire cosa c’è scritto in questa Legge di Bilancio, ad oggi però le risorse aggiuntive sono pari a 6 miliardi, che è quello che ci costa quello che è stato fatto da questo governo, ovvero sostanzialmente due cose: il decreto mille proroghe e un piccolo decreto che riguarda le clausole per il rinnovo dei contratti a tempo e alcuni incentivi per le imprese che delocalizzano, a cui è stato dato un nome molto pomposo che è meglio non ricordare. Al contrario, però, sono state dette tante cose e sono stati annunciati alcuni progetti, alcuni piani, che hanno prodotto questi effetti. Basta questa alternativa, “Europa o non Europa”? Io ritengo che l’alternativa sia fondamentale, perché non bisogna prendere in giro né noi stessi né gli elettori. O il grado di consapevolezza è che di questo si sta trattando, ovvero di politiche che più o meno consapevolmente mettono in discussione il futuro dell’Unione Europea, oppure si sta viaggiando sotto il livello ad oggi richiesto. Naturalmente questa posizione è troppo fragile se non contiene una idea di un’altra Europa, e quindi una risposta ai problemi esposti. Una cosa è chiara: l’impostazione funzionalista non funziona più, ha fatto miracoli in precedenza, ma alla fine anche estremizzandola con la moneta unica non regge. Quindi dobbiamo rilanciare l’europeismo ma ponendoci il problema delle sue basi, che devono essere diverse da quelle dell’europeismo degli ultimi 20/30 anni, che si fondavano sulla logica dei progetti che dovevano portarci ad una Europa più integrata, una unione sempre più stretta tra i 28 paesi membri. Questo modello non funziona più. Ritengo che prima serva una differenziazione nel contesto europeo, non una Europa a due velocità, il che presuppone che i più lenti raggiungano i più veloci, preferisco parlare di cerchi concentrici. Sapendo che si tratta di dare coraggio, sistematicità, e se possibile legittimazione democratica, a dinamiche che sono in atto da anni. L’Europa ha innegabilmente diversi livelli di integrazione, e questo è un dato di fatto, ma con quale coraggio bisogna prendere in mano questa bandiera? L’integrazione e l’ambizione federalista, nell’ambito di questo scenario complesso appena descritto, devono avere un proprio motore che necessita di essere fatto dai paesi che sono disponibili a prendersi un impegno europeista e federalista maggiore. E questi paesi ci sono, culturalmente sono i paesi fondatori, certamente i paesi della penisola iberica e forse qualcun altro. Secondo me non è poco, penso che solo questi 4 paesi economicamente siano i due terzi dell’Europa a 27. Che fa questo cerchio più ristretto? Innanzitutto dovrebbe mettere sul piatto di un contesto internazionale, che ne ha bisogno, il ruolo attivo di una superpotenza tranquilla, come è stata definita l’Unione Europea.
Oggi vi è uno straordinario bisogno geopolitico di Europa, che parte dal fatto che il paese leader dell’occidente ha, e non è la prima volta nella sua storia, una amministrazione che ritiene di non dover esercitare questa leadership del campo occidentale, ma di doversi occupare dei problemi e degli interessi del proprio paese. Mentre nel Mediterraneo, in Africa, nell’Europa, abbiamo un estremo bisogno di forze, credibilità e difesa geopolitica. E poi ci sono alcune sfide che bisogna affrontare penso al digitale, la tassazione sul digitale sulla quale, ma non solo su questa, anche la promozione dell’intelligenza artificiale e la robotica su cui un gruppo di paesi coeso potrebbe svolgere un ruolo fondamentale. C’è un compromesso da trovare sul completamento dell’unione monetaria e poi c’è la troppo lungamente e irresponsabile sottovalutazione del tema migratorio che è l’altra questione su cui, se c’è un gruppo di paesi che vuole scommettere sull’Europa, deve intervenire. La cosa incredibile dell’Unione Europea è che su questa questione, che è di gran lunga la più delicata insieme alla povertà e alle diseguaglianze nei 27 paesi membri, non vi era uno straccio di politica comune fino ad un paio di anni fa. La prima agenda europea sui temi migratori è del giugno 2015, a seguito di una tragedia accaduta al largo delle coste libiche e a un vertice straordinario chiesto nel 2015 dal governo italiano. Ma la discussione europea sulle politiche migratorie è deprimente, perché ruota ancora intorno al regolamento di Dublino, e l’eventuale carico delle ricollocazioni sempre nell’ambito del regolamento di Dublino, con il piccolo particolare che questo regolamento riguarda esclusivamente i rifugiati, che sono una percentuale minima, per fortuna, dei flussi migratori. Anche se funzionassero le politiche che promuovono lo sviluppo economico, la curva delle intenzioni migratorie, con il miglioramento delle condizioni economiche, in una prima fase salirebbe comunque. Ci vogliono anni perché possa scendere: può l’Unione Europea, può l’Italia, non avere una politica di quote per i migranti economici, di tentativo di matching tra domanda e offerta di lavoro in relazione a queste quote, di corridoi umanitari per i rifugiati, di integrazione? Su questi terreni, una volta che il grande flusso è stato in qualche modo messo sotto controllo, grazie ad un grandissimo lavoro fatto dalla Merkel per quanto riguarda il Mediterraneo orientale e dal governo italiano per quanto riguarda il Mediterraneo centrale, due grandissime operazioni politiche fatte da questi governi, ora che cosa si fa in Europa? Si fa finta che non esistano i flussi migratori dei migranti economici? E in Italia che si fa? Si lucra sul lavoro che abbiamo fatto nel 2017? Sarebbe esattamente questo il momento per parlare di quote, corridoi umanitari, ora che non c’è più la pressione dei flussi gestiti dalla criminalità. Concludendo, in vista di questo 26 maggio, abbiamo dunque un doppio dovere: il primo è quello di dire la nostra e fornire dei percorsi per una ripresa del processo di integrazione europea nelle condizioni nuove in cui siamo, perché andare avanti con la vecchia ricetta non funziona. Ma accanto a questo dobbiamo alzare la posta, perché c’è qualcuno che questa posta la sta alzando e non solo in Italia. Dobbiamo decidere: o vogliamo in qualche modo ripetere l’esperienza fatta da quelle classi dirigenti che nel 1913 furono definite i “sonnambuli”, oppure ci rendiamo conto della posta in gioco, e giochiamo la partita all’altezza di quella posta in gioco.
* Intervento all’iniziativa “Per un’altra Europa”, Roma – 23 ottobre 2018